Una delle opere meglio riuscite di Georg Friedrich Händel, che debuttò nel 1735 nel Theatre Royal di Covent Garden con Anna Maria Strada nel ruolo del titolo. Al Teatro dell'Opera di Roma l'abbiamo vista con una magnifica Mariangela Sicilia come protagonista, Rinaldo Alessandrini con la bacchetta fatata e la perfetta regia di Pierre Audi: la prima volta a Roma di Alcina è un trionfo per le orecchie ed una filologica prelibatezza per gli occhi. Dal 18 al 26 marzo ha calcato il palcoscenico del Costanzi con uno stuolo di cantanti formidabili e Ciro Visco alla direzione del Coro.
Sempre sia lodata la Double Line, piccola distribuzione italiana che per l'Estremo Oriente continua ad avere un occhio di riguardo. E lo ha in particolare per il Giappone. Tra le scelte che abbiamo maggiormente apprezzato negli ultimi anni vi è, del resto, quella di portare in Italia Inu-Oh, il recente capolavoro dell'animazione nipponica firmato da Masaaki Yuasa. Sorprendente opera rock, tributo non convenzionale alle storie tradizionalmente tramandate dai monaci Biwa, visionario ritratto del Giappone feudale, il film è stato distribuito in sala un paio di anni fa ma ci piace ricordare anche la sua presentazione fuori concorso alla seconda edizione di Indiecinema Film Festival, avvenuta il 21 settembre 2024 presso il Caffè Letterario di Roma. Con Cure di Kiyoshi Kurosawa si è però alzata ulteriormente l'asticella. Dal 3 aprile è finalmente di nuovo disponibile nei cinema per gli amanti del Maestro Kurosawa e non.
Il Complesso Museale di Santa Maria della Scala dal 17 ottobre al 30 marzo 2025 ospita la mostra Costellazioni. Arte italiana 1915-1960 dalle Collezioni Banca Monte dei Paschi di Siena e Cesare Brandi, a cura del Prof. Luca Quattrocchi, Ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Siena.
Dal testo Moby Dick alla prova che Orson Welles ha riadattato dal romanzo di Herman Melville Moby Dick(Moby-Dick; or, The Whale) pubblicato nel 1851, il demiurgo Elio De Capitani ha riformulato, per il palcoscenico dell'Elfo Puccini di MIlano, questo romanzo dedicato alla relazione tra il mare ed il Capitano Achab, e tra lui e la grande balena bianca, soprannominata Moby Dick. La produzione di questo spettacolo di dimensioni corali vede associati il Teatro dell’Elfo e il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, ed è approdato al Teatro Vascello di Roma per un sold out dall'11 al 16 marzo.
Recensendo sul Corriere della sera questo libro di cui è autore Piero Marrazzo, intitolato Storia senza eroi, edito dalla casa editrice Marsilio, Roberto Gressi ha notato che si tratta di un’opera letteraria che aiuta a riflettere sulla natura umana di ciascuno di noi. Nella prima parte del libro, una confessione autobiografica dell’autore, con immagini letterarie indimenticabili, Marrazzo ricorda i dialoghi che ebbe, dopo che era accaduto lo scandalo da cui in modo devastante era stato investito, con la psicanalista Manuela, con cui aveva avviato un percorso sofferto e doloroso di recupero della sua identità.
Alfred Hitchcock. La Vertigo del più grande creatore di forme
Articolo di:
Alessandro Nardis
L’occasione della proiezione di Vertigo (1959) nei cinema in versione restaurata offre lo spunto per riflettere ulteriormente sull’opera del regista inglese. Ringrazio anticipatamente per gli spunti preziosi sul film Arianna Marmo, Alessandra Avino, Sabrina Nardis e Angelo Bocchino. Fermo restando che tutto quello che si è detto, si dice e si dirà, non ci restituirà mai un quadro veramente soddisfacente della complessità della sua forma artistica. Ed è proprio la forma il fulcro vitale della sua genialità, che lo contraddistingue da tutti gli altri registi.
Come vedremo poco avanti, Hitchcock è stato il più grande creatore di forme della storia del cinema, ed è proprio grazie a questa sua ambiguità formale che ogni tentativo di definizione o di codificazione del suo corpus risulta essere sempre approssimativo e mai definitivo. C’è sempre qualcosa che ci sfugge, una non leggibilità ottenuta proprio mediante una coscienza formale eccezionale. Una sfasatura impercettibile ma reale ed ontologica, come l’urlo di Madeleine sulla torre del campanile emesso poco prima di cadere nel vuoto.
Due fatti sono ovvi. Tutti conoscono Alfred Hitchcock. Nessuno conosce Alfred Hitchcock
La complessità della scrittura hitchcockiana si è rivelata con tutto il suo vigore soprattutto a partire dagli anni Settanta quando, nell'analisi e nell'interpretazione dei film, gli strumenti della semiotica e della psicoanalisi diventarono requisiti fondamentali per qualsiasi lavoro d'indagine. Il film dunque non più (solamente) come esperienza estetica, ma vero e proprio testo da interpretare con tutti i suoi segni e sedimentazioni inconsce: il testo filmico.
Alfred Hitchcock gode del primato assoluto (che dura ininterrottamente, ricordiamolo, proprio dagli anni Settanta) di essere stato eletto territorio privilegiato da parte di analisi ed interpretazioni sulla base di metodi e saperi diversi (oltre alle discipline sopra elencate, ricordiamo anche l’ermeneutica e la Film Feminist Theory, quest’ultima fondamentale per aver posto l’accento sul problema dell’identificazione dello spettatore*). La validità di tali metodologie ha dato i suoi maggiori risultati soprattutto quando incrociate, come dimostrato nell'originale lavoro di Raymond Bellour, L’analisi del film (1979)*, dove alcune pellicole di Hitchcock sono state sottoposte all'analisi testuale intrecciando nello stesso tempo gli strumenti propri della semiologia. Bellour non solo dimostra che l’opzione forte del gruppo della Nouvelle Vague (a partire dagli anni Cinquanta), a favore dell’autorialità di Hitchcock è apertamente confermata dall'assoluta padronanza del lavoro di regia del cineasta inglese, ma fa di Hitchcock l’orizzonte privilegiato di un duplice movimento: una rivelazione delle modalità testuali della composizione hitchcockiana e dei suoi livelli di complessità e una messa in atto di un percorso interpretativo che si da anche come modello per analisi future. Afferma Bellour:
«Non sono Welles o Renoir a costituire i territori filmici essenziali di rivelazione delle strutture del testo filmico, ma Hitchcock e Lang, cioè autori che sanno interpretare al più alto livello di complessità possibile i percorsi produttivi e realizzativi nel sistema degli Studios americani»
Il lavoro di Bellour è capace di scoprire le strutture nascoste del testo hitchcockiano e i meccanismi sofisticati della sua messa in scena, mai pienamente intellegibili mediante semplici visioni. In effetti, e da qui è nato il misunderstanding da parte della critica, Hitchcock metteva in atto una serie di strategie narrative che operavano su più livelli, stratificate, tali da non poter essere decifrate apertamente dallo spettatore, pur percependole a livello inconscio. Eppure il suo cinema aveva una forte vocazione popolare nel senso nobile del termine, come i greci ci avevano mostrato oltre duemila anni fa col loro rito collettivo durante le rappresentazioni tragiche. Educare la collettività, il pubblico, tramite il mezzo cinematografico, tramite il perseguimento del “pure-cinema”. E queste strategie così complesse, prevedevano una consapevolezza del mezzo cinematografico unica.
L'opzione forte dell'autorialità nei confronti del cineasta inglese in realtà era già stata promossa all’inizio degli anni Cinquanta dai critici francesi dei Cahiers du Cinema (molti di essi poi diventeranno registi affermati della Nouvelle Vague) come Claude Chabrol, François Truffaut e Jean-Luc Godard. In questo periodo, all'apice del successo, Hitchcock era riconosciuto in ambienti critici come il regista più preparato, il miglior tecnico che la storia del cinema avesse mai avuto, la cui eccellenza superava addirittura quella di Orson Welles. Ma dopotutto i suoi film non avevano sostanza. Come ci ricorda François Truffaut:
«Hitchcock era stato vittima in America, soprattutto in ambienti intellettuali, di un gran numero di interviste giocate in tono scherzoso e volutamente derisorie. Inoltre, la celebrità ottenuta con la serie televisiva Sospetto e Hitchcock presenta, gli avrebbe non solo compromesso (tra gli anni '50 e in parte anche i '60) l’acquisizione dello statuto di autore, ma anche dato il via a quell’ostracismo da parte della critica che avrebbe stroncato con una superficialità sconcertante, uno dopo l’altro, quelli che poi all’unanimità saranno giudicati come capolavori assoluti, La finestra sul cortile, La donna che visse due volte, Intrigo Internazionale, Psycho e Gli uccelli.»
Nel 1962 Truffaut sottopose Hitchcock ad un vero e proprio “tour de force” giornalistico, un’intervista composta da circa cinquecento domande, portata avanti per quattordici giorni ininterrotti dalla mattina alla sera, caso unico nella storia letteraria. Da questo sistema di domande, che poi troverà fissazione scritta nella prima edizione (1969) di quello che oggi è considerato non solo un classico, ma un vero “must” per tuti gli studiosi di cinema, Il cinema secondo Hitchcock*, emerge un quadro artistico complesso dove l’assoluta padronanza dell’arte registica (grazie al testo di Truffaut gli ambiti accademici e critici legati al cinema vedranno in Hitchcock l’estremo detentore del “sapere dell’arte registica”), e una poetica fondata su un umanesimo problematico ed edificante al tempo stesso, sono solo alcuni degli aspetti della sua personalità.
Il testo di Truffaut distrugge definitivamente tutti i luoghi comuni che avevano fino a quel momento accompagnato la lettura delle sue pellicole, come la suspence (che per Hitchcock è innanzitutto la drammatizzazione del materiale narrativo, il modo per strangolare il quotidiano, usata soprattutto all’interno dell’intreccio narrativo nella gestione dei rapporti sociali e famigliari, più che nelle scene propriamente dette di suspence, al contrario del genere tipicamente horror che la usa solo in senso monotematico), e il giallo (si dimostra che l’autore non solo non aveva mai diretto un giallo, ma che egli rifiutava totalmente il whodunit, tipica convenzione del giallo, che riduceva tutto il film nella soluzione del quesito “chi è stato?”).
Tappa fondamentale della lenta ma inesorabile riabilitazione da parte della critica avvenne però qualche anno prima, grazie al testo di Enric Rhomer e Claude Chabrol,Hitchcock (1954)*, che poneva l'accento su un aspetto fondamentale e mai fino ad allora veramente compreso, non solo nell'ambito di una più corretta ricezione del corpus hitchcockiano, ma più propriamente per quella prospettiva che si affermerà soprattutto dagli anni Novanta riguardo il valore di unicum dell’opera hitchcokiana: quello del rigore formale. Riportiamo un punto saliente dello studio dei due registi francesi:
«Tra tutti gli aspetti di un genio dai mille volti, ci limitiamo a segnalare quello che ci pare il più indiscutibile: Hitchcock è uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema. Su questo argomento soltanto Murnau e Ejzenstejn forse possono reggere il confronto con lui. Il nostro compito non sarà stato inutile se siamo riusciti a dimostrare come a partire da questa forma, in funzione del suo stesso rigore, si è elaborato tutto un universo morale. La forma, qui, non abbellisce il contenuto, lo crea. Tutto Hitchcock è racchiuso in questa formula.»
Caso unico nella storia delle arti visive (e non solo nel cinema come è stato ampiamente dimostrato da Jean Luc Godard*) Hitchcock è in grado di modificare il piano del “reale” non semplicemente elevandolo ad un livello metafisico (questo in fin dei conti è dato comune ad altri geni creativi), ma creando un contenuto reale partendo solo ed unicamente dalle strategie formali. Quindi spazziamo subito via un falso ideologico inerente al suo cinema, che per molto tempo lo ha relegato ad un semplice esercizio di stile, privo di qualsiasi “messaggio”. Tutta la sua opera esprime un alto e profondo universo concettuale, un vero e proprio potenziale ideologico-critico. Tutto ciò avviene grazie alla sua profonda riflessione sulla forma artistica: la forma che crea il contenuto. Si parte dal contenitore per arrivare al contenuto? In parte è vero, ma c’è dell’altro.
Un film del cineasta inglese lo si può riconoscere immediatamente dopo pochissimi fotogrammi, merito di uno stile unico e personale che non aveva eguali nella storia del cinema. Qualcosa di simile lo possiamo riscontrare in Ford, Hawks, Welles, ma in Hitchcock c’è appunto dell’altro, ovvero quella riflessione così profonda sulla forma artistica cui abbiamo fatto menzione poco prima, ha sfociato in una poetica che trascende il secolare rimprovero marxista secondo il quale il processo formale deve rendere visibile la sua mediazione sociale e il proprio potenziale socio-critico (in parole povere il messaggio del film deve essere sempre chiaro e visibile per poter essere critica sociale) e ha prodotto delle vere e proprie allegorie.
Il potenziale “ideologico-critico” dei film di Hitchcock è contenuto proprio nella loro natura allegorica. Insomma, in poche parole, Hitchcock sfugge alla regola marxista di rendere visibile il messaggio filmico. Se leggessimo la sceneggiatura di un film di Hitchcock non ne ricaveremmo quasi nulla a livello di critica. Quella stessa sceneggiatura, messa in scena attraverso la forma hitchcockiana acquisisce sostanza, generando contenuto. Ritorniamo quindi alla formula “la forma che crea il contenuto”. Che questo procedimento formale sia unico e di assoluto dominio del regista inglese, ne sono prova i numerosi rifacimenti e remake delle sue pellicole, in primis Psycho di Gus van Sant, che ha ricreato il film partendo dallo storyboard originario e con uno scrupolo filologico senza precedenti, riproducendo stesse inquadrature, stesse divisione in sequenze, stesso sostrato, stesso stile visivo. Eppure Psycho di Gus van Sant non esprime nessun potenziale ideologico-critico e può essere messo in crisi dal secolare rimprovero marxista. Ciò è la prova che un film di Hitchcock non può essere realizzato da nessun altro all’infuori di Hitchcock stesso.
Il dato reale che sorprende ancora oggi, in conclusione, è che l’opera di questo pensatore (usando un termine preso in prestito dal filosofo Slavoj Zizek), di colui che più di qualsiasi altro suo collega ha riflettuto sul mezzo cinematografico con una consapevolezza ancora oggi non eguagliata, si rivela paradossalmente per la sua totale indipendenza dalla settima arte, sfuggendo agli innumerevoli tentativi di definizione. Il suo cinema ha influenzato numerosi settori culturali, come la pittura, la moda, il teatro e la letteratura. Dal suo nome, è derivato l’aggettivo hitchcockiano, usato per indicare sistemi di interconnessione complessi al pari di freudiano o lacaniano, cosa mai accaduta prima d’ora per un cineasta. E anche quando si è arrivati (apparentemente) ad un punto fermo di definizione della sua opera, ci si accorge in realtà che ciò, altro non era, che una delle infinite tappe di quella giostra (che Hitchcock stesso amava definire cinema) manovrata e animata dal suo genio creativo.