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GAM di Roma. Tra Nathan e la contestazione
Una grande metropoli che guarda all’avvenire, districandosi tra modernità e tradizione classica. È questa, in sintesi, la Roma del Novecento che la Galleria d’Arte Moderna di Roma fa rivivere nella mostra Roma città moderna. Da Nathan al Sessantotto a cura di Claudio Crescentini, Federica Pirani, Gloria Raimondi e Daniela Vasta. Oltre 180 opere delle collezioni capitoline, di cui alcune mai esposte prima, ripercorrono idealmente la complessità della cultura artistica della capitale nell’arco di sette decenni, attraverso gli artisti che l’hanno vissuta.
Come sottolineato dai curatori, “La mostra si muove su di un tracciato storicizzato, con il preciso obiettivo di immergere le opere d'arte selezionate nel contesto geo-artistico, temporale e sociale in cui sono state create”. In primo piano, ovviamente, è la città, con le sue trasformazioni urbanistiche e sociali, documentate, oltre che dagli artisti, da fotografie e filmati. Strumenti multimediali, realizzati in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Luce, permettono, inoltre, di visualizzare insieme immagini e brevi testi scientifici utili ad approfondire le relazioni fra la città, il suo sviluppo e le arti.
Il nome di Ernesto Nathan (sindaco di Roma dal 1907 al 1913, noto come mazziniano, israelita e massone), fautore di un’evoluzione della città sul modello delle grandi capitali europee, identifica la sezione relativa all’arte del primo Novecento (1900-1920). Il Ritratto di Nathan (1910), eseguito da Giacomo Balla, ci colpisce per l’approccio fotografico, che è ancora più evidente nell’altra opera di Balla, quasi monocroma, che gli è vicina: Il dubbio, che ritrae la moglie Elisa. Questa sembra assumere una posa obliqua, quasi da selfie ante litteram, mentre si volge con un’aria interrogativa verso la luce. Ricordiamo a questo proposito che il pittore, notissimo come protagonista del Futurismo, si era formato a Torino dove aveva appreso le tecniche fotografiche e litografiche, prima di aderire a diverse correnti artistiche, tra cui il Divisionismo italiano.
All’inizio del secolo Roma sembra offrire agli artisti la grandezza dei suoi monumenti storici, ma con qualcosa in più. Un enorme polittico (olii su tela) del 1912, realizzato dall’ungherese Adolf Hirschl Hirémy, esce per la prima volta dai depostiti comunali e ci colpisce per l’atmosfera misteriosa e per il titolo in latino Sic transit… , che richiama l’investitura papale. Si tratta di una rilettura simbolista della città dai toni apocalittici (un pannello è intitolato Visioni di peste nel popolo), che allude alla trasformazione della Roma pagana in quella cristiana.
Altre vedute, che formeranno l’immaginario collettivo dell’atmosfera della città nella visione generale, rientrano nelle opere di artisti come Onorato Carlandi e Adolfo De Carolis, così come in quelle della Secessione romana, istituita nel gennaio 1912, tra i cui esponenti spiccano Arturo Noci, Camillo Innocenti, Amleto Cataldi, Giovanni Prini e lo stesso Balla. Assai suggestivi sono i ritratti femminili raccolti in questa prima sezione, come La sultana di Innocenti (1913), Violette di Enrico Lionne (1913), L’arancio (1914) di Arturo Noci, e soprattutto Nel parco (1919) di Amedeo Bocchi, che raffigura la moglie dell’artista probabilmente nella villa Strohl-Fern, luogo di ritrovo e di studio di artisti internazionali. Di grande impatto visivo, questo dipinto sembra rifarsi all’Espressionismo tedesco nella violenza dei colori, ma è più armonioso nei tratti.
Sono esposti anche alcuni busti muliebri tra cui La principessa Laetitia di Ettore Ximenes, in gesso patinato. È sempre Ximenes lo scultore che ci accoglie nella saletta dedicata alla I guerra mondiale, con i piccoli ritratti in bronzo a figura intera dei generali Porro, Diaz e Cadorna, insieme a quello del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, mentre tra i pittori di guerra spiccano Antonio Rizzi con il suo Maggio 1915 (olio su tela) e Augusto Bompiani, autore dell’olio Le donne e le armi (1915-18).
Al secondo piano, nel settore dedicato agli anni 1920-45, troviamo una selezione di opere di futuristi e aeropittori degli anni Venti e Trenta, tra cui Benedetta Cappa Marinetti, Tullio Crali, Enrico Prampolini, Tato, e Sante Monachesi, che nel dipinto A foglia morta su Roma (1940) mostra la città dall’alto, riconoscibile dal Colosseo. Altre correnti artistiche degli anni Venti-Trenta, dal Tonalismo al Realismo Magico, dalla Metafisica al Primitivismo, riguardano quegli artisti che osservano Roma con un nuovo sguardo, da Giuseppe Capogrossi, a Felice Casorati, Giorgio de Chirico, Achille Funi, Franco Gentilini, Arturo Martini, Fausto Pirandello, Mario Sironi e tanti altri.
La trasformazione paesaggistica della città è documentata da artisti come Mario Mafai, Afro, Eva Quajotto ed Esther Epifani che hanno raffigurato le demolizioni di epoca fascista (non solo l’area dei Fori imperiali, ma anche quella intorno all’Augusteo e la zona dei Borghi). Numerose fotografie documentano invece la nascita di nuovi quartieri periferici, tra pecore, acquedotti e palazzoni. Oltre a Mafai, sono presenti altri esponenti della celebre Scuola romana di via Cavour, tra cui Scipione con il suo celebre Ritratto del Cardinal Decano (1930), che trae spunto dalla romanità per mostrarci piazza San Pietro in una personale dimensione onirica. Allo stesso tempo è raffigurata la decadenza del corpo del cardinale Vannutelli, prossimo alla morte, con tratti espressionistici quasi paradossali in una sorta di ambiguità tra il destino aureo della città eterna e la morte terrena.
Nell’ultima sezione, intitolata 1945-1968 Dalla Liberazione alla contestazione, viene evidenziata a Roma la compresenza di linguaggi artistici molto diversi. Nel secondo dopoguerra il realismo, denso di significati sociali e politici, di Renato Guttuso, Carlo Levi, Fausto Pirandello e altri, gode ancora di grande autorevolezza in campo artistico e, proprio come avviene in contemporanea nel cinema, sembra assumersi il compito di raccontare l’Italia di quegli anni, evidenziandone i cambiamenti. Ma già dalla fine degli anni Quaranta si assiste anche a un proliferare di gallerie d’arte, spesso d'avanguardia, che s’impongono come luoghi di ricezione delle novità internazionali, spingendo gli artisti a esplorare in vario modo il territorio dell’arte non figurativa.
Verso la fine degli anni Cinquanta, la contrapposizione fra realismo e le varie proposte astratto-concrete lascia il passo all’influenza delle ricerche americane, dall’Espressionismo astratto al New Dada ai primi sentori della Pop art, interpretati in modo originale dalla cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, così chiamata dal fatto che gli artisti (tra cui Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli) si riunivano negli anni Sessanta nel Caffè Rosati in Piazza del Popolo. La sperimentazione è anche alla base del lavoro concettuale di questo periodo di Luca Maria Patella o alla scelta ideologica di materiali poveri, come il legno di pino di Russia utilizzato da Mario Ceroli, del quale è in mostra una composizione che richiama la sagoma della Venere di Botticelli (Goldfinger/Miss, 1964). Nell’ambito del gruppo romano dell’Arte povera, viene ricordata anche la figura di Pino Pascali, morto a soli 33 anni nel 1968, nel pieno della rivoluzione studentesca scelta per delimitare cronologicamente la rassegna.
Oltre alla mostra, che si sviluppa su tre piani, si può ammirare il nuovo allestimento del piano terra della Galleria, intorno al chiostro dell’ex convento delle Carmelitane scalze di San Giuseppe a Capo le Case, con un “percorso estetico” di sculture del Novecento italiano: capolavori da riscoprire tra i quali voglio ricordare il Pastore di Arturo Martini, una terracotta di una essenzialità plastica permeata di arcaismo, che mostra un uomo, appoggiato al suo bastone, chiuso in un silenzio senza tempo. La scultura venne premiata alla Quadriennale di Roma del 1930 e donata dall’autore al Governatorato di Roma, le cui opere sono confluite nella Galleria capitolina.