Editoriale. L'epidemia come politica secondo Giorgio Agamben

Articolo di: 
Teo Orlando
Giorgio Agamben

Nel volume A che punto siamo? L'epidemia come politica, edito da Quodlibet, Giorgio Agamben ha raccolto i testi che è venuto pubblicando nei mesi coincidenti con quello che egli chiama lo "stato di eccezione" per l’emergenza sanitaria. Si tratta di interventi puntuali, a volte molto brevi, che cercano di riflettere sulle conseguenze etiche e politiche della pandemia e, insieme, di definire la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione sono andati volta per volta configurando.

Agamben traccia un primo bilancio a quattro mesi dall’inizio dell’emergenza, ossia nel luglio del 2020, ma si prefigge di considerare gli eventi in una prospettiva storica decisamente allargata, che quindi travalica considerevolmente il periodo in cui abbozza le sue riflessioni. La sua tesi di fondo è quella dell'obsolescenza dei paradigmi biopolitici, per mutuare il termine caro a lui e a Michel Foucault, con cui si è finora esercitata la cosiddetta "governamentalità", ossia  quella specifica «arte del governo» che, attraverso un insieme di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche», assicura la presa in carico delle popolazioni e garantisce il «governo dei viventi» (Michel Foucault, La governamentalità, «Aut-aut», 167-168, 1978, 28). Governo dei viventi vuol dire, in ultima analisi, possibilità di dirigere e condizionare la condotta dei cittadini di uno Stato.

Per Agamben, quest'obsolescenza dei paradigmi e della ricerca di nuove forme di governamentalità avrebbe indotto i poteri che governano il mondo a cogliere l'occasione di una pandemia – per lui non importa se vera o simulata – per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose (quindi al di là del governo dei "semplici viventi"). Per il filosofo, ciò significa che i paradigmi tradizionali non sono più considerati adeguati alle nuove esigenze dalle centrali del potere. È notevole come egli proponga un paragone con la crisi che sconvolse l’Impero romano nel III secolo d. C., quando Diocleziano e poi Costantino intrapresero quelle radicali riforme delle strutture amministrative, militari ed economiche che dovevano culminare nelle forme autocratiche del successivo impero bizantino. Parimenti, i poteri dominanti avrebbero deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi ormai usurati delle democrazieborghesi", con i loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui si può appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che ne stanno tracciando le linee.

Agamben sostiene che questa Grande Trasformazione che i poteri dominanti cercano di imporre non passa per un nuovo canone legislativo, ma per il vecchio strumento dello "stato di eccezione" (Ausnahmezustand, in tedesco, secondo la coniazione del giurista Carl Schmitt), cioè la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali. Da ciò ricava analogie con quanto avvenne in Germania nel 1933, allorché il neocancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la Costituzione della Repubblica di Weimar, dichiarò uno stato di eccezione che durò per complessivi dodici anni e che di fatto vanificò il dettato costituzionale apparentemente mantenuto in vigore, come hanno anche osservato Ernst Fraenkel (Il doppio Stato) e Franz  Neumann (Behemoth).

Ma mentre nella Germania nazista fu necessario a questo fine dispiegare un apparato ideologico compiutamente totalitario, per Agamben la trasformazione attuale opererebbe attraverso l’instaurazione di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute. Assistiamo a un rovesciamento paradossale: il diritto alla salute del cittadino, grande conquista del welfare della tradizione delle democrazie borghesi, si rovescia, senza che la gente sembri accorgersene, in un’obbligazione giuridica che deve essere adempiuta a qualsiasi prezzo e che assume connotati rituali che ricordano pratiche religiose. Per Agamben il prezzo che abbiamo pagato per queste pratiche darà modo ai governi di richiedere tale pagamento simbolico ogni volta che lo riterranno nuovamente necessario.

Questo dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale con il suo stato di eccezione viene definito dal filosofo con il termine «biosicurezza». E per lui si è probabilmente mostrato uno degli strumenti più efficaci fra quanto la storia dell’Occidente abbia finora conosciuto. Infatti, quando la posta in gioco è costituita da una minaccia alla salute sembra che gli uomini siano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, neppure durante le due guerre mondiali e sotto le dittature totalitarie. Lo stato di eccezione, che è stato prolungato con numerosi provvedimenti emergenziali ad hoc, sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese, messa in opera senza che né i cittadini né, soprattutto, le istituzioni deputate abbiano trovato alcunché da obiettare. Per Agamben l'Italia si è rapidamente adeguata all’esempio cinese, ossia di un paese ben poco democratico, costituendo per l’Occidente il laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata in modo estremo: per lui saranno gli storici futuri, quando avranno chiarito che cosa era veramente in gioco nella pandemia, a giudicare le conseguenze etiche di tali provvedimenti.

Un'altra interessante osservazione dell'autore di Homo Sacer riguarda la tecnica: essa sarebbe il terzo dispositivo di controllo della Grande Trasformazione, dopo lo stato di eccezione sul piano politico e dopo la scienza sul piano "religioso" lato sensu: sul piano dei rapporti sociali è la tecnologia digitale che, coalizzandosi con il «distanziamento sociale», definisce la nuova struttura delle relazioni interpersonali. Le relazioni umane dovranno evitare in ogni occasione per quanto possibile la presenza fisica e svolgersi, come già di fatto spesso avveniva, attraverso dispositivi digitali sempre più efficaci e onnipervasivi. La nuova forma delle relazioni sociali si può sintetizzare in una sola parola: connessione. Chi non è connesso è tendenzialmente escluso da ogni rapporto e condannato alla marginalità.

Ma paradossalmente, rileva Agamben, ciò che costituisce la forza della trasformazione in corso potrebbe rovesciarsi e diventare il suo punto debole. Infatti, l'apparato di quello che egli chiama il "terrore sanitario" ha avuto bisogno di un dispositivo mediatico concorde e senza incrinature, che non sarà facile mantenere intatto. Del resto, anche la religione medica, come ogni religione, sviluppa le sue eresie e le sue forme di dissenso. E già da più parti autorevoli voci hanno contestato la gravità dell’epidemia, che non potrà essere indefinitamente sostenuta dalla quotidiana diffusione di cifre di cui viene messa in dubbio l'attendibilità scientifica.

Secondo Agamben, è probabile che i primi a esserne consapevoli siano proprio gli stessi poteri dominanti che, se non presentissero di essere in pericolo, non avrebbero fatto ricorso a dispositivi così estremi. La progressiva perdita di legittimità dei poteri istituzionali non viene arginata se non attraverso la produzione di una perpetua emergenza e del correlativo bisogno di sicurezza che essa genera. Ma Agamben pone la questione che ritiene più importante: "per quanto tempo ancora e secondo quali modalità potrà essere prolungato l’attuale stato di eccezione?". Secondo lui saranno necessarie nuove forme di resistenza, a cui candida a impegnarsi coloro che non rinunciano a pensare una politica futura, che non dovrà avere né la forma obsoleta delle democrazie borghesi né quella "del dispotismo tecnologico-sanitario che le sta sostituendo".

A queste osservazioni del filosofo romano, si è associata la studiosa americana Babette Babich (docente alla Fordham University di New York, nell'articolo Retrieving Agamben's Questions): per la Babich, la posta in gioco determinante è l'idea stessa di libertà, pensata originariamente come libertà di movimento che è stata sottratta, e che riconnette all'ultima riga del Mito di Sisifo di Albert Camus, quando esorta: "Dobbiamo immaginare Sisifo felice".

Infatti, solo tra le anime dei morti, che abitano le pianure di asfodelo negli inferi, Sisifo è autorizzato a scalare le montagne: la sua roccia è un grande peso – Camus lo chiama non a caso "il proletario degli dèi" – ma anche la ragione per cui è "costretto" a risalire sempre di nuovo dagli inferi verso il  "mondo superiore", ossia  il mondo dei vivi, a cui era così affezionato.

Babette Babich ritiene che la riflessione più importante di Agamben, perché inquietante (uncanny, che traduce il tedesco unheimlich di Sigmund Freud), su ciò che Friedrich Nietzsche chiamava "cose prime e ultime" sia la seguente: "come avremmo potuto accettare, solo in nome di un rischio che non era possibile precisare, che persone a noi care e gli esseri umani in generale non solo morissero da soli, ma – cosa mai accaduta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?"

La nostra umanità comincia, così ci dicono certi paleoantropologi, con i riti di sepoltura, osserva la filosofa newyorkese (e con lei il nostro Giambattista Vico):  siamo umani non perché siamo saggi, ma perché – e questo lo condividiamo con il nostro parente ominide, ossia l'homo neanderthalensis – seppelliamo i nostri morti, con cura, quello che Martin Heidegger chiamava 'Fürsorge', cioè con quel tipo di rito di cui, come ci dicono i paleontologi, rimangono tracce nei millenni.

E qui la Babich si richiama anche al mito di Antigone, magistralmente trasposto nella tragedia di Sofocle. L'eroina ci dice di essere legata alla legge [νόμῳ è la parola che usa]: così sostiene di fronte a Creonte, fratello di sua madre, padre del suo promesso sposo, lo stesso Creonte che ha bisogno di lei per assicurarsi la sua pretesa di legittimo dominio. I fratelli che si uccisero a vicenda combatterono così aspramente che – dice Sofocle – erano irriconoscibili da morti: pertanto, poiché "non era possibile specificare" quale fratello fosse stato fedele a Tebe e quale avesse cercato di prenderla con la forza, un corpo fu scelto per essere individuato come Polinice [Πολυνείκης,  etimologicamente scelto per significare "lotta molteplice": Empedocle usa lo stesso termine per un ciclo cosmico di inimicizia] in modo che al cadavere fossero negati i riti funebri che ogni mortale richiede per il passaggio all'aldilà. Per salvare suo fratello da un'eternità senza lutto, Antigone sfidò l'editto della legge di Creonte, a costo della sua vita. L'amore costrinse Emone, il figlio di Creonte, a sfidare il suo divieto, ed egli, dopo aver fallito il suo tentativo contro il padre, rivolse la sua stessa spada contro sé stesso.

Per la filosofa, Thanatoi come siamo, ossia figli di un giorno, mortali, abbiamo bisogno di coloro che ci piangono e ancora più urgentemente abbiamo bisogno di fare lo stesso a nostra volta.
Dobbiamo sempre costruire la rima alta, abbiamo bisogno della poesia e dell'arte, come abbiamo anche bisogno, così ci dice Sofocle, come ci dice Eschilo in modo ancora più terribile, di riti per i morti. Sicché quello che permettiamo di fare in nostro nome, quello che stiamo facendo, quello che abbiamo già permesso di fare, è sbagliato e contro il senso più elementare di giustizia.

Pubblicato in: 
GN25 Anno XIII 27 aprile 2021
Scheda
Autore: 
Giorgio Agamben
Titolo completo: 

A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020.
Pp. 112.
€ 10,00.