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Tenebrae di Guarnieri al Teatro Nazionale. Il continuo fluire della Luce
Un continuum musicale, la nuova cantata videoscenica di Adriano Guarnieri al Teatro Nazionale di Roma in coproduzione Teatro dell’Opera di Roma e Ravenna Festival, in cartellone dal 16 al 20 ottobre 2010. La regia è di Cristina Mazzavillani Muti a riattivare quel tessuto scenico-cromatico di Pietra di Diaspro nel 2007, come il direttore Pietro Borgonovo e le splendide voci, il Tria Mysteria Kraugés, di Alda Caiello e Sonia Visentin, qui coadiuvate da Antonio Giovannini, controtenore, e dall’Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma.
La prima si è svolta quest’estate al Ravenna Festival presieduto dalla regista Mazzavillani Muti, ed ha preso luce quest’opera sui testi di Massimo Cacciari rielaborati dalla regista insieme al Canto ad Elis di Georg Trakl (1887-1914). Un’opera, questa di Guarnieri, esoterica prima di tutto, ipnotizzante nel fluxus continuo musicale che non s’arrende alle Tenebrae, che cercano di affliggere l’Anima della danzatrice Catherine Pantigny, quanto il Corpo di Elena Bucci. Cristologicamente affine, rielabora e fa risuonare attraverso le battole, antichi strumenti che i chierichetti usavano durante il Venerdì Santo, - prestate gentilmente dal Museo Civico del Paesaggio Sonoro di Riva presso Chieri – la morte di Cristo come dell’anima e del corpo di ogni essere umano, anche il più umile, come il Cristo deposto del Caravaggio, proiettato su uno dei tendaggi trasparenti dove si vivificano i tormenti visivi.
La proiezione dei dipinti di Caravaggio, il Maestro del Nero, sta qui a significare che è dalle tenebre che sorge la luce, come dalla sua mestica bruna ovvero nera, nasceva la luce più splendente del chiaroscuro. Dal contrasto luce e tenebre, fin dall’inizio si elabora una sorta di lotta accesa, e dai lati provengono cristalli di luce, che fendono la scena tutta sviluppata in altezza con tre sacerdotesse-cantantesse che vibrano dall’alto i loro timori sia per l’Anima in tunica bianca, sia per il Corpo in nero. Ai due lati del palco, poco sotto si trovano i fiati, due trombe e due tromboni, a sottolineare che il pneuma, il respiro, l’anima, abbraccia e avvolge sia i protagonisti sia le voci come la musica. Le voci difatti si intrecciano e s’intercalano senza mai sciogliersi su queste lunghe scalinate dove si ergono al di sopra e trine, lamentando l’azione lacerante dei gemiti dell’Anima ed il dibattersi del Corpo.
In un tessuto, quello scenografico, costumistico e virtualmente reale di Ezio Antonelli, come nelle luci danzanti come fiammelle di Vincente Longuemare, le costellazioni della storia universale, si muovono in cerchio come il tempo: in multipli astronomici e astrologici, che immaginiamo sortire dei numeri come il trino delle voci, contrapposto e distanziato dal dualismo Anima e Corpo tipicamente occidentale. In queste tenebre che si muovono in cerchio e frastagliate dalla luce, cerchiamo di scorgere quei “pertugi” cui si riferiva Blake (in The Marriage of Heaven and Hell, 1790), per osservare il mondo, questo e l’altro, possibile, probabile, nella sua natura infinita e incorrotta attraverso “l’oro dei giorni” (Elis di Trakl), ed in questi rimanendo sospesi, fra due luci opacizzanti per la loro stessa incommensurabile luce: forse ci riveleranno che “l’ultimo oro di tramontate stelle” non è che il baluginare di un altro raggio.