55° Edizione del Festival dei Popoli. Il sentimento dei luoghi

Articolo di: 
Eleonora Sforzi
Yaar, 55° Edizione del Festival dei Popoli

Nel contesto dei 50 Giorni di Cinema internazionale a Firenze, il 5 dicembre scorso si è conclusa la 55° Edizione del Festival dei Popoli, il noto Festival Internazionale del Film documentario, che – ancora al grido di Reality is more – quest'anno ha dedicato tre parallele retrospettive, accompagnate da workshop, ad alcuni importanti registi nel panorama documentario internazionale, quali l'olandese Jos de Putter e il francese Vincent Dieutre, oltre ad un omaggio alla montatrice francese Dominique Auray.

Lo spettro delle anteprime in programma - sempre proiettate in lingua originale con sottotitoli - nella settimana del festival, inoltre, è stato molto ampio e denso di contributi provenienti da luoghi e contesti diversi fra loro, con sguardi rivolti a molteplici tematiche: l'attualità e la storia passata, la società e la famiglia, le attività manuali e il lavoro intellettuale, lo spazio circostante e l'ambiente nella sua totalità.
Sono probabilmente proprio queste ultime le coppie di motivi che si intrecciano con tutti gli altri e che favoriscono nello spettatore riflessioni sul presente, ma sempre in rapporto al passato, e sulla direzione in cui stiamo andando.
Il senso di un luogo in relazione all'individuo che vi interagisce, allora, potrebbe essere il fil rouge che accomuna alcune interessanti proiezioni in programma nel concorso internazionale. Mi riferisco, in modo particolare, a “As Cidades e as Trocas” per la sezione lungometraggi, “Le rêve est fini” per la sezione mediometraggi e, ultimi, ma non per importanza, “¡Bello, bello, bello!”, “Death & The Maiden” e soprattutto “Yaar” per la sezione cortometraggi.

I registi portoghesi Luísa Homem e Pedro Pinho con “As Cidades e as Trocas” mostrano gli effetti del turismo di massa su Capo Verde, l'arcipelago di dieci isole dell'Africa occidentale, che ha conquistato nel 1975 l'indipendenza dal Portogallo ed è attualmente caratterizzato dalla compresenza di due realtà tanto diverse a breve distanza l'una dall'altra: la prima è quella del lusso che contraddistingue eleganti resort e alberghi visitati da turisti facoltosi, mentre la seconda è quella della periferia povera e degradata dove vivono gli abitanti del posto. La macchina da presa si sposta dal porto alle distese desertiche dell'interno, dove molti lavoratori passano l'intera giornata prima di apparire come comparse in serate a tema per turisti, i quali si rapportano a quel territorio fotografando scorci da cartolina. Altrove, invece, si svolge la vita di una famiglia di contadini che abita nei pressi di una delle rare oasi coltivabili e che vive seguendo i ritmi della terra: nel contesto  così controverso di queste isole proprio tale piccola realtà agricola pare sublimarsi ad un livello più alto di serenità, costruendo un rapporto positivo con l'ambiente circostante. Sono allora i dipinti sulle pareti nella casa del contadino e in quelle di altri abitanti del posto a svolgere la funzione di emblemi silenziosi ma simbolici delle contraddizioni della globalizzazione e del turismo di massa.
La coproduzione di María Ruido e Khairi Jemli, con “Le rêve est fini”, approfondisce con lucidità la problematica dell'emigrazione nelle sue diverse sfaccettature: il tema della diversità e dello “straniero”, i viaggi estenuanti alla ricerca di migliori condizioni di vita e gli inevitabili alti costi in vite umane che molto spesso determinano. Nella cornice – in apertura e in chiusura del film – della distesa quasi interminabile del mare, inquadrata dal punto di vista di un ipotetico migrante a bordo di un barcone, scorrono immagini di repertorio di ieri e di oggi, a testimonianza che in ogni tempo c'è stato chi si è allontanato dal proprio paese per necessità, mentre alcune voci over raccontano la propria storia e la ricerca di speranza che li ha accompagnati in quel limbo del mare.
Alcune didascalie riassumono la complessità e la contraddittorietà delle politiche di gestione dei flussi migratori attraverso il mare, sottoposti ad insidie, turbolenze e correnti incerte: «Ho letto di te ma non sei contenuto in alcuna narrazione. […] La tua storia è la somma di tutte le altre storie. […] Io sono l'altro del tuo tempo. Sono troppo osservato e troppo invisibile allo stesso tempo.»

Altrettanto meritevoli di osservazioni sono i tre cortometraggi sopracitati.
La macchina da presa del regista cubano Pilar Álvarez sceglie di spostarsi nei corridoi del museo di belle arti dell'Avana, nel suo “¡Bello, bello, bello!”: proprio in questi spazi, dove arte e individuo si incontrano quotidianamente, in orario di chiusura risuona ancora l'eco delle parole dei visitatori che hanno attraversato le sale e si sono soffermati ora su uno ora su un altro dipinto. In particolare, ripercorrendo i passi di due visitatori – non inquadrati, quindi reali o immaginari – osserviamo quegli stessi quadri su cui si è posato il loro sguardo, ascoltando i loro commenti che, dal piano figurativo si spostano su quello più intimo e personale al punto da instaurare una sorta di dialogo con l'opera d'arte. Alla riapertura del museo, la mattina successiva, rinizia un'altra giornata per le sale mute del museo, che mantengono la memoria di commenti, segreti e storie di chi ha attraversato quegli spazi, pronti ad ascoltarne di nuovi.
C'è poi la delicata storia che circonda il dipinto “Death and the Maiden”, da cui è tratto il titolo del cortometraggio realizzato dalla giovane regista Yael Lotem e dedicato alla vita di Charlotte Salomon, la pittrice tedesca di origini ebraiche nata nel 1917 a Berlino e morta, ancora giovanissima, nel 1943 ad Aushwitz. Questo breve ma intenso film prende avvio nella casa dove ha abitato la ragazza, a cui seguono fotografie e inquadrature dei suoi dipinti: alla sua arte Charlotte aveva affidato il compito di raccontare la propria vita e, rispettandone la volontà, Yael Lotem segue l'intimo percorso tracciato dalle pitture e lo esplicita attraverso una voce narrante fuori campo.
«This is all my whole life» aveva detto la stessa artista al proprio medico, affidandogli l'intera produzione pittorica realizzata – che aveva intitolato “Life? O Theatre?” - prima di essere catturata dai nazisti e oggi, grazie a tale cortometraggio, questa collezione di dipinti è la più grande testimone di una vita vissuta per l'arte, nonostante gli orrori e l'intolleranza che l'avevano colpita sia a livello professionale che personale.

Una piccola perla di grande interesse è, a mio avviso, il cortometraggio “Yaar”, del regista  belga Simon Gillard, che in venti minuti riesce a trasmettere non tanto una storia, quanto le sensazioni e i colori, le espressioni visive e sensoriali di un luogo, un villaggio di cercatori d'oro nel Burkina Fasu, dove, nonostante una sostanziale e tangibile povertà,  alcune figure si muovono e agiscono creando sfumature di colori e di suoni particolari.
Gillard indugia ora sugli esterni soleggiati del villaggio ora sull'oscurità delle miniere, rischiarate solo dalla flebile luce posta sopra i caschi protettivi dei lavoratori ed invita lo spettatore ad osservare queste inquadrature evocative di figure umane e animali, di primitivi strumenti di lavoro e di rituali magici, forse propiziatori, in cui acqua, sabbia e vento si mescolano creando meravigliose variazioni cromatiche.
Un cortometraggio – premiato con la Targa “Gian Paolo Paoli”, come miglior film etno-antropologico, e con il premio Syracuse University in Florence – in cui lo sperimentalismo si fonde ad una ricerca in profondità delle bellezze, quasi velate di mistero, che gli elementi naturali offrono allo sguardo ora spontaneamente ora mediati dall'intervento umano, al di là di qualsiasi altra ricchezza materiale.

Pubblicato in: 
GN6 Anno VII 11 dicembre 2014
Scheda
Titolo completo: 

55° Edizione del Festival dei Popoli - Festival Internazionale del Film documentario

(Firenze, 28 novembre - 5 dicembre 2014)
 

[Nel contesto dei 50 Giorni di cinema internazionale a Firenze]

Approfondimento su alcuni film del concorso internazionale: il lungometraggio “As Cidades e as Trocas” di Luísa Homem, Pedro Pinho; il mediometraggio “Le rêve est fini” di María Ruido, Khairi Jemli; i cortometraggi “¡Bello, bello, bello!”, di Álvarez, “Death & The Maiden” di Yael Lotem e “Yaar” di Simon Gillard.