La battaglia di Hacksaw Ridge. Una guerra per la pace

Articolo di: 
Marcovalerio Di Schiena
La battaglia di Hacksaw Ridge

È in uscita il prossimo 2 febbraio “La battaglia di Hacksaw Ridge” (Hacksaw Ridge), per la regia di Mel Gibson, con Andrew Garfield (Desmond T. Doss), Teresa Palmer (Dorothy Schutte), Hugo Weaving (Tom Doss, padre di Desmond), Vince Vaughn (Sergente Howell) e Rachel Griffiths (Bertha Doss, madre di Desmond). Le case di produzione sono Cross Creek Pictures, Demarest Media, Icon Productions, Pandemonium, Permut Presentations e Vendian Entertainment.

Dare il nome alle cose, quale potere numinoso! Anzi, no, dato da un nume, il Nume, Adonai, il Signore della Bibbia, dato ad Adàm, l’uomo, sull’adamàh, la terra. Gli americani, quasi nuova umanità, dànno i nomi alle cose

1942, Okinawa, Giappone. Visione dantesca. Inizio in medias res: ratti dovunque; bigattini, budella che escono da metà superiori e inferiori di corpi americani e giapponesi; sembra di sentirlo, quel mefite di morte: Mel Gibson è lo stesso di sempre e non ci risparmia nulla

Gli americani, eccoli lì. Sono sotto la scala di canapa che pende lungo tutta la parete. Sono tutti lì e sono tutto e solo quel che vedi. Lì. Sono come te li aspetti. C’è Jack che sbraita i suoi ordini, che s’infuria con Desmond, c’è Desmond, che fa quel che può, come può, come sa. Come crede. E poi c’è quello stramaledetto promontorio a seghetto, che non si riesce a sorpassare, a conquistare, e che ogni volta reclama il suo bottino di vite americane a centinaia, strappate a durezza e verità, a un’austerità antica, che non esiste quasi più. Un’austerità di costumi, dunque più voluta e cercata, che subita. Appunto, troppo antica. Promontorio Seghetto, questo significa dare un nome alle cose, questo Hacksaw Ridge è come gli americani impongono a sé di vedere la realtà, persino quella. Sembra pensino: «Diamo un nome a questa fogna, possibilmente un nome che non spaventi nessuno, che anzi lo prenda in giro, quell’inferno, forse un nome che in questo sia anche un po’ apotropaico, che in qualche modo allontani il pericolo. Chiamiamolo così: sa di casa. Non ci sono degli Hacksaw Ridge da noi? Ah, no? Beh, c’è la Death Valley, c’è Salt Lake City, che te ne pare? Ci sono poi le White Sands, le Everglades, c’è Cape Cod. Nomi infernali ne abbiamo anche noi, così come abbiamo nomi che giocano con le cose.» Sono uomini, che giocano, fanciulli di un nuovo mondo che giocano a Dio e Adamo. E che vincono! Dio ama i fanciulli, come amò Shlomo, il figlio di re David. 

Dall’altra parte c’è una religione che venera un uomo come un dio in un paese tutto, ma proprio tutto, sacro, un paese che la religione Shintō, la stessa che quel culto preserva e trasmette, vede ricolmo di kami, di dèi: «Possa Tu vivere diecimila anni, sin quando ogni sasso sia divenuto macigno e sopra vi riposi il muschio...» recita il Kimi-ga Yo, l’inno nazionale. C’è quel sol uomo, un uomo-dio rifulgente, udibile però distintamente quando dirà – vero monstrum logico a cui nessuno può aver creduto – di aver rinunciato alla propria natura divina, non come l’Altro, l’Adonai delle scritture, silente ma doppio nella sua voce, almeno secondo il Talmud, al più dunque rovello di teologi e rabbini e non quindi fenomeno psichiatrico. 

Un caso umano, anzi psichiatrico, rischia piuttosto di diventare Desmond. C’è infatti chi lo crede pazzo: un obiettore di coscienza Avventista del Settimo Giorno vegetariano nonviolento che santifica il sabato, ma vuole andare in guerra nel corpo della sanità senza dover sparare un colpo? Che cosa!? “I can’t be hearing this right!”, ringhia il sergente: mi sa che son diventato sordo!

Dal canto loro, gli americani qui combattono contro una psicosi di massa, contro il fanatismo e allora keep your ears down, occhio! Ma lo fanno anche giocando a dare i nomi alle cose. Mantenendo unito un corpo collettivo. Gli americani che Gibson ci mostra sono probabilmente proprio quelli di quella generazione: veri servitori della patria e combattenti per la libertà. Giovani idealisti che morivano per un pensiero d’America, un dare alle cose il loro nome, un rimetterle al loro posto. Credevano. Ci credevano. Pronti a riconoscere i propri errori.  Con loro, un signore che non crede nell’uso delle armi, per filantropia e per fede nel messaggio del Cristo. Non un profeta. Non si professa martire. Non vuole convincere nessuno della propria testimonianza di fede. Crede. Nel profondo. Dal profondo. Desmond è però un uomo, un uomo con un viso ordinario. Un uomo fragile, forse, ma non debole: la sua volontà è indomita. Lo sguardo gentile. I modi garbati. Autentico il credo. “Ma uno come te – gli chiede Smitty – che ci fa con una broad, ossia con una «gnocca», come quella?” Desmond non ingoia, risponde… con garbo. Scorre il sangue, il suo, ma lui rimane fermo. Diventa così un leader silenzioso. Un leader dell’esempio: salva, sotto il fuoco giapponese, 75 compagni. Senza paura, senza tremori: se trema a fine giornata, è per spossatezza. Prega: «One more, just one more», ossia “fa’ che io possa salvarne un altro ancora”. Cala con la fune anche due derelitti del Sol Levante, che non conoscono la morfina. Desmond non è pazzo, come tutti dicono di quella famiglia, che sono cioè crazy as their old man, matti come il padre.  Desmond è buono. E quindi anche pazzo, come tutti i veri buoni, gli autonomi della morale, è pazzo come tutti giudicano chiunque compia un’impresa creduta impossibile, dettata da una visione che pare fanatica, ma che è in realtà tutta piantata dentro una morale. Lo dice: I need to serve, non posso rimanere qui, mentre la meglio gioventù d’America muore anche per me! I need to put a little bit of it back together: rimettere insieme i pezzi, almeno in parte. Fare la propria parte, onorando quella porzione di adamàh che il Signore ha affidato a ciascuno. Sì, perché Desmond ha conosciuto sé, ha conosciuto la violenza domestica, ha conosciuto la voglia di fare a brani un padre-bestia, ha conosciuto il giorno in cui guardando un’immagine sacra dal misto di fulgore e abisso che sono le nostre vite tutti con rabbia gridiamo: “Ma dove sei Tu? Dove?”. Desmond è tra quelli che l’hanno ritrovato, Dio. Ha rivoluto la sua fede dopo essersi perso. Anche Desmond, dunque, come i savi del Talmud può dire: “Signore, tu pronunziasti la tua parola, ma noi ne udimmo due”. Ha creduto di poter credere. Ha voluto credere. Ma la fede, ogni fede, così come ogni passione, è il paio d’ali che fa spiccare all’uomo il volo verso un suo altro sé, verso il suo sé più pieno – Desmond ha trovato l’amore –; è il gettare il cuore oltre l’ostacolo, è il gesto del barone di Münchhausen. Ama la sua bella mentre digrigna i denti e s’indigna guardando con lei un cinegiornale che mostra un’adunata nazista: le insegne dell’aquila con la croce uncinata sono sufficienti per decidere Desmond alla guerra. Desmond è ora uomo. E si compie il miracolo di un giovane con la faccia quasi bambina che diventa eroe di guerra, al punto che la truppa non combatte, se quello da sotto il Promontorio Seghetto non finisce di pregare. E allo stesso tempo sembra pensino degli altri: «Sarebbero uomini anche quelli, se non dovessero uscire dalle loro tane a frotte, come sorci allo sbaraglio, se non fossero vestiti di quella buffa uniforme coi lembi di stoffa ai lati del volto, quasi fossimo nel Sahara, se non avessero sulla testa lo stupido berretto a visiera anziché l’elmetto, e sul volto quel folle ghigno di guerra.». Beh, per Desmond quelli sono indubbiamente uomini.

E gli americani sono tutti pronti a combattere in prima linea, senza distinzioni di ceto. Senza accenti posh. A proposito, questi artisti australiani reclutati da Gibson, australiano anch’egli, fanno un lavoro egregio: sono tutti assolutamente credibili come americani e l’originale lo attesta pienamente. Tutti, dal primo all’ultimo. C’è, tra quelli che hanno un ruolo di rilievo nella pellicola, solo un americano al 100%, ovvero Vince Vaughn, il sergente Howell. Persino Desmond è interpretato da Andrew Garfield, che è per metà British e che è vissuto molti anni in Inghilterra. Per intenderci, si tratta dello studente brillante, ma scettico e indolente, che il personaggio di Robert Redford cerca disperatamente di rimotivare in Lions for Lambs. Ecco, qui per fortuna siamo nell’epoca, e nell’epos se volete, precedente, dei lions for lions. Si battono tutti da leoni, dal tenente al soldato semplice, tutti sul pezzo, e gli americani alla fine, tra atroci sofferenze, prevalgono, pur conservando l’umiltà e la concretezza di chi si trova ad ammettere, disperato: nobody can survive that shit!, nessuno può sopravvivere a … uno schifo simile. Tutti lottano e chiunque soffra o muoia lo fa con dignità; e il regista omaggia compiaciuto il valore nipponico.

La qualità della recitazione, che fortunatamente può fare a meno del contributo di Gibson, è molto buona. Eccellente è la prova della Palmer, sempre appassionata e sempre credibile. Ottime sono le rese di Garfield e del britannico Hugo Weaving, che ricorderete come l’agente Smith della trilogia di The Matrix e come la meravigliosa voce del facondo “V” nella versione originale di V for Vendetta. Molto bravi anche la Griffiths, Worthington, Bracey e Vaughn. 

Chapeau al regista, a questo bambinone non proprio geniale che quando dice “Dio-patria-onore!” dà evidentemente il meglio di sé. Ma ancor più doveroso è l’omaggio suo, e nostro, a Desmond Doss (1919-2006), grande eroe americano della pace. Non ci resta che augurarvi una buona visione.

Pubblicato in: 
GN14 Anno IX 3 febbraio 2017
Scheda
Titolo completo: 

La battaglia di Hacksaw Ridge
Titolo originale Hacksaw Ridge
Lingua originale inglese
Paese di produzione Stati Uniti d'America, Australia
Anno 2016
Durata 131 min
Colore colore
Audio sonoro
Genere biografico, drammatico, storico, guerra
Regia Mel Gibson
Sceneggiatura Andrew Knight, Robert Schenkkan, Randall Wallace
Produttore Terry Benedict, Paul Currie, Bruce Davey, William D. Johnson, Bill Mechanic, Brian Oliver, David Permut, Tyler Thompson
Produttore esecutivo Michael Bassick, David S. Greathouse, Mark C. Manuel, Ted O'Neal, Buddy Patrick, James M. Vernon, Suzanne Warren, Christopher Woodrow
Casa di produzione Cross Creek Pictures, Demarest Media, Icon Productions, Pandemonium, Permut Presentations, Vendian Entertainment
Distribuzione (Italia) Eagle Pictures
Fotografia Simon Duggan
Montaggio John Gilbert
Musiche John Debney, Rupert Gregson-Williams
Scenografia Barry Robison

Interpreti e personaggi
Andrew Garfield: Desmond T. Doss
Vince Vaughn: Sergente Howell
Sam Worthington: Capitano Glover
Luke Bracey: Smitty
Hugo Weaving: Tom Doss
Ryan Corr: Tenente Manville
Teresa Palmer: Dorothy Schutte
Rachel Griffiths: Bertha Doss
Richard Roxburgh: Colonnello Stelzer
Luke Pegler: Milt "Hollywood" Zane
Richard Pyros: Randall "Teach" Fuller
Ben Mingay: Grease Nolan
Firass Dirani: Vito Rinnelli

Uscita al cinema 2 febbraio 2017