Il cliente. Il commesso viaggiatore di Miller in chiave persiana

Articolo di: 
Marcovalerio Di Schiena
Cliente

È ora nelle sale Il cliente (titolo originale: Forushande), per la regia di Asghar Farhadi, liberamente ispirato a Death of a Salesman (Morte di un commesso viaggiatore) del drammaturgo statunitense Arthur Miller; le case di produzione sono Arte France Cinéma, Farhadi Film Production, Memento Films Production; il film è distribuito in Italia dalla Lucky Red.

Un uomo, una donna. Un teatro. Persone colte, serie, ragionevoli, lontane, a quanto sembra, mille miglia dalla pruderie, dalle ubbie e dalle gabbie mentali degli ayatollah, in questo spicchio d’Iran che sa molto d’Europa, di quella che vorremmo vedere, e molti di noi ormai, forse, solo conoscere. Appunto: i giovani. Qui assumono l’aspetto di studenti-spettatori, studenti che assistono da spettatori alla lezione, più che non vi partecipino, e spettatori accorsi ossequenti ad assistere alla performance di chi li valuterà. Spettatori-studenti di un domani, forse di un Iran di domani, sommessamente, molto sommessamente messo in scena da Asghar Farhadi. Senso forse riposto di quel consumato schema-artificio chiamato play within the play, insegnatoci da Shakespeare già nell’Amleto: però quell’artificio è declinato in modo inedito, interessante. Più avanti vedremo come.

Recitano bene. Sono bravi. Anche se a volte violentano un po’ il dramma di Arthur Miller, Death of a Salesman, e fanno dire a Willy cose che non avrebbe pensato. 

L’antefatto? Semplice: i due attori – lui è anche un insegnante – cambiano casa. Vite autentiche in condizioni prima di disagio, poi di moderata agiatezza. Un uomo entra nelle loro esistenze, e lo fa forse nel peggiore dei modi possibili, violandole. Forse. Ma come un’ape, che quando colpisce, avendo lasciato il pungiglione nella vittima, di fatto commette seppuku. La paga? Allora siamo soddisfatti? Ma soddisfatti di che? In fondo lei ha un taglio sulla testa guaribile in qualche settimana – o per lo meno questo è ciò che la pellicola ci consente di vedere, probabilmente per i motivi di cui sopra –, se c’è dell’altro da capire ce lo mettiamo noi. C’è una ferita, un orgoglio infranto, la dignità perduta. La dignità perduta? Quella di chi? Lei la conserva per tutta la pellicola. Lui l’assiste teneramente. Con molto tatto, con molta intelligenza. La stessa che lo rende un insegnante speciale, la stessa che gli consiglia e gli consente di mantenere il controllo sino alla fine, di non uccidere, anche quando è ormai chiaro chi sia colui che ha compiuto il gesto infame. Un gesto che egli paga caro, in termini pecuniari, fisici e psichici. Rischia di essere disonorato dinanzi alla famiglia, che lo venera. E rischia molto di peggio, così lei, che è tuttavia sostenuta da tutto il vicinato, che diviene invece via via più freddo nei confronti di lui.

L’onore. Sì, ma quale, se si è conservato il rispetto di sé, se si è capito che è questo il centro, il fulcro? Rispettare sé, saper dire “questo io sì” e “quello io no”, come quella sera, quando invitato il nipotino a cena e cucinata una bella pietanza di spaghetti, tutti e tre si accingono a consumare un pasto tanto squisito quanto, a ben vedere, contaminato. Non c’entra la religione. O forse sì, ma come scaturigine antica, forse solo un’ispirazione, di una condotta di vita seria, rigorosa. No, quella pasta insieme al nipotino non va consumata. E no al resto. Il nipotino obbedisce fermo. Non una parola. Nulla turba la sua allegrezza bambina, ma sa che qualcosa non va. Consumare quel pasto è peccato. O forse no, è solo sbagliato. Esegue, muto, non si lamenta.  Se serata italiana dev’essere allora lo zio e la zia si faranno arrivare una bella pizza, e poi un gelato! 

La vita continua. E il criminale? Il criminale è come un criminale, e non ha l’aspetto di Jack Nicholson. Ha quello del signor Rossi. Un aspetto anonimo. Un male anonimo, stupido. Frutto della compensazione, forse, per una vita grama di solo lavoro. È frutto di quel momento di idiozia in cui dici: “Il mio l’ho fatto: adesso divertimento! …e che qualcun altro mi paghi per lo spettacolo”. Se non che il biglietto si paga sempre in prima persona, e a volte è troppo caro.

Manca, però, l’altro pezzo della storia. Ma possibile mai che quell’uomo pacato, serio, riflessivo, lontano un miliardo di anni luce dalla vanità di un divo o semplicemente da quella di un professionista affermato, non si voglia almeno vendicare neanche un po’? Possibile che non ne abbia nemmeno per una legnata simbolica, di quelle di cui sentiamo dire in Piccolo grande uomo, gran pellicola del passato? 

Possibile? Ma perché dovrebbe vendicarsi? Forse perché sceglie che la legge non deve fare il suo corso? Forse perché la scelta non è sua? Forse perché si sente in gabbia? Ma vendicarsi, in fondo, non è come stabilire un prezzo per il proprio dolore? E allora qual è il prezzo del dolore della persona più amata al mondo? C’è?

Non c’è prezzo? Oppure non c’è un valore? Come può in questa semplice distinzione risiedere la differenza tra il bene e il male?

C’è un raffinato gioco di specchi in questo film, c’è un protagonista che razionalmente guarda, anzi contempla il proprio dolore, e che sa farlo con distacco, così come sembra riuscirci questa sua bellissima, intelligentissima, umanissima moglie, che quando lui è di spalle lo guarda struggendosi, forse un po’ vergognandosi di quanto le è successo. C’è il criminale, il colpevole che, prima pavido, è poi in grado di guardare sé allo specchio provando un misto di pietà e vergogna, e di accettare con dignità quanto ora gli tocca in sorte, tra le urla incredule della moglie che aveva appena finito di ringraziare Iddio. C’è un ultimo, stupido tiro mancino. Un momento in cui l’etica pubblica – quel che pensano gli altri –, l’orgoglio ferito – quel che penso io di me in relazione a una mia mancanza – e la volontà di rivalsa s’incontrano, schiacciando così la voce, tenue, forse flebile, ma in ogni caso appena udibile, della ragione. Sì, perché la ragione parla piano. E per ascoltarla, bisogna imparare come si fa, visto che non parla: siamo noi chi la fa parlare. Spesso per dialoghi, per atti di drammi, se si è fortunati, se si è bravi. Registi, attori, drammaturghi della propria mente. Meno ancora è facile vederla, vedere dov’è, la ragione.

Un momento di cecità rovina un’armonia, un amore, voluti, strappati all’asprezza della vita, desiderati, coltivati.

Un uomo, e una donna sono ora l’uno di fronte all’altra. Si rispecchiano l’uno nel dolore dell’altra, i volti stravolti. Farhadi non ci consente di approfondire quello sguardo. Non squarcia il velo. Né noi vogliamo farlo al suo posto. Rimangono solo gli occhi trasformati e un pennello, ultimo tocco di vanità, ultimo omaggio che l’arte fa a sé, un dipinto nell’immagine, che è un dramma, un’azione tenue al punto quasi di estinguersi e imprimersi nella nostra memoria come un singolo fotogramma: arte, cinema, e dramma allo specchio. Un uomo e una donna allo specchio l’uno dell’altra, trasfigurati, eternati. L’arte racconta sé. Il cinema lo fa. Le esistenze, più autentiche che mai, di due attori fanno altrettanto. Il regista le fa girare con maestria in questo loop lasciandoci con una domanda. Questo film è da non perdere.

Pubblicato in: 
GN12 Anno IX 20 gennaio 2017
Scheda
Titolo completo: 

Il cliente
Titolo originale     Forushande
Paese di produzione     Iran
Anno     2016
Durata     125 min
Colore     colore
Audio     sonoro
Genere     drammatico
Regia     Asghar Farhadi
Soggetto     Arthur Miller
Sceneggiatura     Asghar Farhadi
Casa di produzione     Arte France Cinéma
Farhadi Film Production
Memento Films Production
Distribuzione (Italia)     Lucky Red
Fotografia     Hossein Jafarian
Montaggio     Hayedeh Safiyari

Interpreti e personaggi

    Shahab Hosseini: Emad Etesami
    Taraneh Alidoosti: Raana Etesami
    Babak Karimi: Babak
    Mehdi Koushki: Siavash
    Farid Sajjadi Hosseini: Nasser
    Emad Emami: Ali
    Maral Bani Adam: Kati
    Mina Sadati: Sanam
    Shirin Agkakashi: Esmat
    Ehteram Boroumand: sig.ra Shahnazari
    Sam Valipour: Sadra
    Mojtaba Pirzadeh: Majid
    Sahra Asadollahe: Moigan

Premio per la sceneggiatura e per l'interpretazione maschile al Festival di Cannes 2016

Uscita al cinema 5 gennaio 2017

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