Ricordo di Mario Monicelli. L'ideale più bello di un uomo libero

Articolo di: 
Brando Fornaciari*
Mario Monicelli

Ho avuto l’immensa fortuna di conoscere  Mario Monicelli, il grande regista scomparso tragicamente il 29 novembre scorso, quando il Festival du Cinéma Méditerranéen lo accolse nel 2008 a Montpellier per il suo ultimo film, Le rose del deserto, oltre che per una retrospettiva. Io, che del festival sono il traduttore e l’interprete, divenni l’accompagnatore di Mario per tre giorni: furono giornate indimenticabili.

Dopo qualche titubanza iniziale, tipica di questo tipo di lavoro, scoprimmo tra di noi affinità umane e caratteriali: potrei azzardare l'ipotesi che il fatto di essere profondamente, e sfacciatamente, livornese, mi aiutò a farmi accettare meglio, se posso usare quest'espressione. Il commento del regista fu: «livornese di quelli buoni? Allora va bene...».

Non mi metterò qui a fare psicologia spicciola o apologia politica: si tratta di aspetti che non m’interessano granché. Alla fine, queste cose si fanno quando ce n’è bisogno; e dato che con Mario questo bisogno non si presentò, sono convinto che se ne senta ancora meno l'esigenza con chi legge.

Voglio qui raccontare qualche aneddoto per ricordare l'uomo e il regista; anche se, qualora fosse qui vicino, probabilmente sbotterebbe in questo modo: «Macché! Smettila di dire castronerie! Che cosa vuoi che sia fare dei film!».

Perché lui era fatto così: se l’adulavi troppo, o piuttosto eri relativamente cosciente della persona con cui stavi parlando, ti mandava semplicemente a quel paese.

Una sera molto tardi, ci ritrovammo a tavola con il regista francese Pierre Salvadori, il quale aveva scelto di presentare Le pigeon (I soliti ignoti, 1958) in quanto uno dei suoi tre film preferiti in assoluto. Tra un bicchiere e l’altro, Salvadori domanda: «Maestro, mi dica come fare quando siamo con uno sceneggiatore e non riusciamo ad andare avanti nella scrittura del film; mi dica lei qual è il trucco per trovare l’ispirazione». Monicelli continua a bere, mi guarda, lo guarda, e gli risponde: «Boh, che cosa ne so io?». Salvadori non demorde e comincia a citare i capolavori di questo piccolo grande uomo, che gli replica ancora: «ma che cosa ne so, noi all’epoca ci trovavamo tutte le sere a casa di questo o di quell’altro, mangiavamo e bevevamo insieme, e venivano fuori delle idee. Una volta lavorava uno, una volta l’altro; quando uno trovava i soldi per fare un film, poi, chiamava gli altri: è così che si faceva, non ci s’aveva mica trucchi!». Vi lascio immaginare la faccia di Salvadori quando scopre, dopo la conferma della moglie di Monicelli, che il Grande Cinema italiano è opera di geni che si divertivano e che facevano film a partire da serate avvinazzate fra amici. E che questi amici si chiamavano Federico Fellini e Giulietta Masina, Gillo Pontecorvo, Nanni Loy, Age e Scarpelli, Suso Cecchi d’Amico, Anna Magnani, Totò, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Paolo Villaggio, ecc.

Un altro bell'episodio si verificò quando durante la tavola rotonda raccontò a un pubblico esterrefatto che lui non guardava mai i suoi film in sala, perché, diceva, «a me interessa farlo, il mio film, non guardarlo. Una volta finito si fa dell’altro».

È interessante anche un piccolo aneddoto riguardante L’armata Brancaleone (1966). E fui io a porgli la domanda, chiedendo come fosse stato girare quel film, con quell'accozzaglia di pazzi; mi rispose: «davvero divertente!». E poi mi raccontò che i protagonisti parlarono quel linguaggio inventato, una sorta di grammelot basato su un improbabile italiano medievaleggiante, per circa sei mesi, prima, durante, e dopo il film, in qualsiasi momento della vita quotidiana, e che la gente che se li ritrovava davanti ci impazziva.

Dovrei fermarmi qui perché altrimenti rischio di diventare logorroico. Tralascio volutamente le nostre discussioni politiche, anche perché trovereste qualcuno che avrebbe da ridire su certe verità. Dunque tengo le mie certezze per me.

Mi limito ad aggiungere solo due importanti particolari. Il primo è il riferimento a chi ospitava (e a dove erano ospitati) i dirigenti comunisti durante il fascismo e la guerra: era Gillo Pontecorvo, il quale prestava al partito clandestino una casetta sulla costa vicino Cannes, ch’egli si era comprato con i soldi delle sue vittorie tennistiche. Infatti si chiamava all’epoca ancora Gilles, ed era un tennista francese di ottimo livello.

L’altro aneddoto è una delle più belle scene della mia povera esistenza: alla sua partenza, Monicelli esce dal palazzo del Festival (du Cinéma Méditerranéen di Montpellier) salutandone gli organizzatori e le personalità presenti, con tanto di tappeto rosso e di berlina di lusso ad attenderlo. Arriviamo quasi all'automobile, e mi saluta calorosamente ringraziandomi; a quel punto gli sussurro: «Arrivederci Mario, grazie di tutto, e un saluto anche da molti compagni livornesi», ovvero tutti quelli a cui avevo annunciato la sua venuta e che mi avevano detto di salutarlo, tra cui mio nonno partigiano suo coetaneo, deceduto qualche mese dopo, i miei genitori, e molti altri.

A quel punto lo vedo che s’arrabbia e che comincia a urlare: «Brando, che fai, ti vergogni? Non me lo devi dire a bassa voce, devi urlarlo, perché il nostro ideale è il più bello, non ti vergognare mai!». E monta in macchina mentre sua moglie gli domanda: «Ma che cosa c’è?». Lui risponde: «è Brando che si vergogna di urlare la sua fiducia nel comunismo!». Poi mi saluta da dentro la vettura con quel suo sorriso sornione, lasciandomi in balia dei presenti che si precipitano per domandarmi che cosa gli avessi detto!

Ciao Mario, ci mancherai tanto, in questo mondo che hai dipinto così efficacemente in Amici miei (1975): ci aiuterai con la supercàzzola (nonsense, cfr. nota) prematurata, con lo scappellamento a destra, come se fosse antani (altra parola inventata).

Ho tutta la collezione di videocassette di Mario Monicelli che venivano vendute in allegato con L'Unità, tra cui La grande guerra: volevo farmi autografare il video, ma Mario mi disse: «Ma che cosa ci fai con un autografo, non ti serve mica a una sega!». E la mia cassetta non è autografata...Non volli insistere, aveva ragione lui.

Nota
Il termine supercàzzola è un neologismo entrato nell'uso comune provenendo proprio da Amici miei di Monicelli. Indica un nonsense, una frase priva di senso logico, piena di parole inventate sul momento, usata per confondere la persona al quale ci si rivolge e rendendolo ridicolo di fronte agli astanti.

Pubblicato in: 
GN30 Anno III 8 dicembre 2010
Scheda
Titolo completo: 

Mario Monicelli, nato a Viareggio il 16 maggio 1915 e morto suicida a Roma il 29 novembre 2010 (gettandosi dal quinto piano del reparto di urologia dell'Ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato per un tumore alla prostata in fase terminale), è stato uno dei più rappresentativi registi e sceneggiatori italiani del secondo dopoguerra.

Tra i suoi film, molti dei quali appartenenti al genere della cosiddetta "commedia all'italiana", qui citeremo: Il cuore rivelatore (1934, cortometraggio ispirato a The Tell-Tale Heart di Edgar Allan Poe, con Giuseppe Pedrini e Giuliano Carta); I soliti ignoti (1958, con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò e Claudia Cardinale); La grande guerra (Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1959, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman); I compagni (1963, con Marcello Mastroianni, Renato Salvatori e Annie Girardot); L'armata Brancaleone (1966, con Vittorio Gassman, Gian Maria Volontè, Catherine Spaak; nel 1970 esce il sequel, Brancaleone alle crociate); La ragazza con la pistola (1968, con Monica Vitti e Carlo Giuffrè); Vogliamo i colonnelli (1973, con Ugo Tognazzi e Antonino Faà di Bruno); Romanzo popolare (1974, con Ugo Tognazzi, Ornella Muti e Michele Placido); Amici miei I e II (1975, 1982, con Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret); Un borghese piccolo piccolo (1977, con Alberto Sordi e Shelley Winters); Le due vite di Mattia Pascal (1985, ispirato al romanzo di Luigi Pirandello, con Marcello Mastroianni, Senta Berger, Flavio Bucci, Laura Morante); Speriamo che sia femmina (1986, con Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli); Il male oscuro (1990, ispirato al romanzo di Giuseppe Berto, con Giancarlo Giannini, Emmannuelle Seigner, Stefania Sandrelli); Rossini! Rossini! (1991, con Sergio Castelitto, Philippe Noiret, Giorgio Gaber, Jacqueline Bisset);  Parenti serpenti (1992, con Marina Confalone e Alessandro Haber); Le rose del deserto (2006, con Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber).

Note a cura di Teo Orlando

* Brando Fornaciari é traduttore italiano e consulente del Festival du Cinéma Méditerannéen di Montpeller

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