Ardore di Roberto Calasso. Tra il manifesto ed il dissimulato

Articolo di: 
Giuseppe Talarico
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Roberto Calasso occupa un posto di primo piano nel mondo della cultura Italiana, ed il suo ultimo libro, intitolato Ardore in edizione Adelphi, idealmente è legato a suoi precedenti volumi, come K., il Rosa Tiepolo, Le Folie Baudelaire

Ad accomunare queste opere vi è un elemento essenziale dovuto all’indagine intorno al rapporto tra la letteratura e la dimensione metafisica e soprannaturale.

In Ardore, Calasso descrive ed analizza la civiltà e la cultura dei Veda, attraverso la interpretazione delle grandi questioni  filosofiche e religiose derivanti dallo studio delle opere  fondamentali che si sono conservate fino ad oggi.

In primo luogo  l’autore coglie un aspetto della civiltà Vedica, che la rende unica ed irripetibile nella storia della umanità. I Veda in India, dove il loro culto si diffuse tra il decimo e l’ottavo secolo a.c., non avvertirono il bisogno di erigere templi, muri, istituzioni di culto, città. Questo fatto si spiega con la circostanza essenziale che per i Veda ogni luogo della terra era considerato adatto e propizio per celebrare i sacrifici in favore degli Dei Immortali.

Commentando con uno sguardo critico ammirevole per profondità e perspicuità i testi che rimangono della grande civiltà Vedica, come il Rgveda, la Satapatha Brahmana, Upanisad amata da Schopenhauer, Calasso ricostruisce il rapporto che vi era in questa visione della vita tra il mito ed il rito. Secondo il mito dei Veda, all’origine della creazione vi è il desiderio della mente di sciogliersi attraverso l’esperienza dell’ardore e della ebbrezza, la pratica del tapas.

Prajapiti viene generato in rapporto con un'altra entità designata con il termine di Saptarsi. Dopo che Prajapiti ha dato vita alla creazione, gli dei si dimenticano di lui. A Prajapiti viene mossa l’accusa di avere creato accanto alla vita la morte, che nel Veda viene vista come intrinseca alla creazione. Infatti Prajapiti, il progenitore del tutto e dell’essere, dopo la creazione è terrorizzato dalla morte e per questo si rifugia nella terra.

Nella metafisica dei Veda, accanto agli Dei dotati di immortalità, vi sono i Rsi, che sono capaci in quanto veggenti di vedere e percepire gli inni, essenziali per la celebrazione dei sacrifici. Subito dopo si trovano gli uomini che vivono sulla terra, il luogo della non verità e nel quale è presente il male nelle sue diverse forme.

Per Calasso è fondamentale considerare che il pensiero dei Veda ha in comune con la filosofia greca ed antica, nata tra il  IV e V secolo a.c., l’indagine sulla Physis ed il mondo naturale. Mentre nel mondo greco ai tempi dei filosofi assumeva un'importanza rilevante la distinzione tra il sapere scritto e quello trasmesso mediante la parola, nel mondo dei Veda è importante la differenza tra ciò che è manifesto e ciò che è dissimulato, in quanto si trova confinato nel mondo invisibile.

Cosìccome, proprio perché l’attività da cui trae origine la creazione è mentale, nei Veda è presente una sottile e penetrante riflessione intorno al rapporto tra la mente e la parola. La mente sovrasta per la sua ampiezza ed estensione la parola. Nel libro di Calasso viene riportato un dialogo, che si trova in uno dei testi Vedici, di grande bellezza e spessore intellettuale. Narada, giovane allievo che ha compiuto i suoi studi, si presenta dinanzi al maestro Sanatkumara e gli confessa di soffrire moltissimo.

Nel rispondergli il maestro Sanatkumara sviluppa un complesso ragionamento, nel corso del quale elenca  ed enumera le attività che l’uomo deve prediligere e sperimentare. In primo luogo, la meditazione; inoltre deve diventare consapevole attraverso il discernimento e l’uso della saggezza; infine deve considerare che nel mondo vi è una forza e potenza superiore a cui fare riferimento; infine bisogna coltivare il valore della memoria.

Nella sua pregevole analisi dei testi del Veda, Calasso evoca e ricorda la dottrina che nell’uomo individua una duplice componente: l’Io ed il. Ovviamente Il Se si configura come la parte profonda dell’uomo che ha un legame con l’armonia che si coglie nell’universo. Il rito ed il gesto liturgico nella visione religiosa dei Veda ha un ruolo di preminenza rispetto agli inni ed alle formule che si possono recitare durante il compimento dei sacrifici.

Infatti il rito sacrificale ha la capacità di liberare ed affrancare l’uomo dalla schiavitù del tempo e della morte. Il rito si sostanzia in una serie di gesti prescritti  e obbligatori a cui il sacrificante, in presenza del Brahmano che sorveglia, deve attenersi, se vuole stabilire un rapporto ed una relazione con gli Dei immortali. Grazie al rito sacrificale l’uomo, che vive in un mondo in cui è assente la verità, e che appare inquinato dal male e dalle tenebre, può accedere al mondo invisibile, dove la verità si rivela e si mostra in tutto il suo inesauribile potere conoscitivo.

Per questo motivo, secondo Calasso, la visione vedica del sacrificio dimostra come questa civiltà, più di qualsiasi altra del mondo antico, seppe spingersi fino a varcare il confine che separa il mondo visibile da quello invisibile. A proposito del rito, nel Veda viene indicato in che modo bisogna costruire l’altare per il compimento del sacrificio e come isolare il luogo su cui esso verrà attuato.

Il sacrificio comporta sempre l’uccisione e l'eliminazione di una sostanza oppure di un animale, con cui l’uomo consacrato paga il suo debito verso gli Dei e la Morte, oltre che nei riguardi di una potenza ignota. Il sacrificio avviene quando  sono presenti i due fuochi che simboleggiano la terra ed il cielo. Inoltre esso si estende al tutto e coincide con la vita, in base alla visione dei Veda. A questo proposito Calasso stabilisce analogicamente un confronto tra il sacrificio compiuto verso una potenza ignota e la forza misteriosa che induce l’artista a realizzare le sue opere e a coltivare il dono della creatività, si pensi all’isolamento di Flaubert mentre componeva i suoi immortali capolavori.

Un parte importante nella visione religiosa dei Veda era attribuita alle libagioni. Infatti, per superare e vincere la paura legata alla provvisorietà del tutto, l’uomo vedico ogni giorno allo spuntare della luce ed al crepuscolo, quando le tenebre scendono a coprire la superficie della terra, era obbligato a compiere le libagioni. A questo proposito bisogna sottolineare che la pratica delle libagioni era diffusa nel mondo greco, si pensi ad Antigone che sparge la sabbia sul corpo morto del fratello, e a Socrate, che prima di bere la cicuta ed il veleno, chiede se sia possibile con quella sostanza venefica compiere un sacrificio in favore degli Dei immortali. Ovidio, in una sua opera, ricorda  che il rito del sacrificio e delle libagione proviene dall’Oriente.

Nella parte finale del suo libro Calasso, dopo avere descritto il mito ed il rito dei Veda, chiarisce quali implicazioni antropologiche la sua indagine è suscettibile di avere. A questo proposito ricorda che l’antropologo Mauss scoprì un Tikì, vale a dire una giada portata sul petto dalle donne Maori, antica civiltà che si trovava in Nuova Zelanda, su cui erano effigiate e raffigurate divinità simili a quelle verso cui era rivolto il culto dei Veda.

Questo fatto dimostra che la mitologia è un campo della conoscenza umana fondamentale, poiché rivela una disposizione della mente umana a compiere i riti sacrificali, al di là delle diverse epoche storiche prese in considerazione. Grazie alle analogie ed alle corrispondenze, predilette da Baudelaire, è possibile capire come funziona la mente umana. Due, secondo Calasso, sono le modalità della mente attraverso cui il pensiero diventa possibile: il connettivo ed il sostitutivo, a cui corrispondono il continuo ed il discreto.

Nella società contemporanea, in cui la secolarizzazione dispiegando i suoi effetti ha eclissato il sacro e la visione metafisica della vita, per Calasso, che a questo proposito cita l’opera di Durkheim, il sacrificio è stato sostituito e soppiantato dalle procedure.

Pubblicato in: 
GN47 Anno III 11 aprile 2011
Scheda
Autore: 
Robero Calasso
Titolo completo: 

Ardore

Adelphi, 2010, pp. 529,  € 35