Il canto di amore e morte di Rilke. Neoromanticismo nella Torretta Valadier

Articolo di: 
Teo Orlando
Gabriela Corini

Mercoledì 20 aprile 2011 alle ore 21.15 presso la Torretta Valadier di Ponte Milvio, simbolo del XX municipio di Roma Capitale, che ha patrocinato l’iniziativa, l’attrice Gabriela Corini ha concluso il ciclo di rappresentazioni di una delle opere pià significative di Rainer Maria Rilke, Il canto di amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke (Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke). È stata l’ultima di una serie di repliche che hanno visto un piccolo ma assorto pubblico, dopo il successo ottenuto lo scorso anno presso il Castello di Sarteano, in provincia di Siena.

Il testo appartiene agli anni giovanili del poeta praghese. La prima stesura risale al 1899, quando Rilke soggiornava a Berlino, nella “Villa Waldfrieden”, dove lo scrisse in una sola notte, dandogli come titolo semplicemente L’alfiere (Der Cornet). Una seconda versione, spedita nel 1904 a Stefan Zweig, costituì la base per il testo pubblicato nel 1906 e poi ristampato in una collana di successo dell’editore Insel di Francoforte nel maggio del 1912: raggiunse una tiratura di 10.000 copie, inizio di un ininterrotto successo che ha portato il volume a superare il milione di copie ai giorni nostri.

Il punto di partenza è un’antica cronaca pubblicata nel 1665 a Regensburg e redatta dal conte Johann von Stauffenberg. Prende le mosse dalla cessione della quota di patrimonio di Christoph Rilke, che era stato ucciso nel 1663 nella guerra contro i Turchi in Ungheria durante la campagna del condottiero e scrittore Raimondo Montecuccoli, a suo fratello Otto. Rilke arricchisce la breve cronaca originaria raccontando la storia del viaggio di Christoph Rilke da Langenau fino in Ungheria, dove avrebbe trovato la morte.

Rilke descrive l’aristocratico Christoph come un diciottenne pieno di ideali e aspirazioni, che parte per la guerra accompagnato da un marchese di origine francese, da cui riceve in regalo un petalo di una rosa che gli era stata donata dalla fidanzata. Dovrà proteggerlo da ogni calamità. Christoph Rilke von Langenau viene nominato alfiere, ossia colui che dovrà portare la bandiera. Orgoglioso di questa nomina, intende comunicarla a sua madre scrivendo una lettera che tiene accanto al petalo di rosa.

Al di là del fiume Raab, che segna il confine e sulle cui rive avverrà la battaglia decisiva, Christoph pernotta in un castello con i suoi compagni, trascorrendo la notte nella stanza della torre insieme con la contessa (che rappresenta l'ultima incarnazione della femminilità, rappresentata volta per volta anche dalla madre, dalla fidanzata dell'amico, da una strega e da una prostituta). Durante la notte il castello viene attaccato dai Turchi e dato alle fiamme. Per salvare la bandiera e raggiungere la sua compagnia già messa in rotta, rinuncia a indossare l’uniforme e l’elmo, attraversa le rovine in fiamme e lascia a cavallo il castello. Con la bandiera che brucia, si ritrova da solo in mezzo ai nemici e cade in battaglia.

Lo stile della prosa rilkiana è un misto di neoromanticismo lirico e di pennellate impressioniste, atte a trasmettere quelle sensazioni che il pubblico si aspettava: esuberanza della gioventù, appetito per la vita, e l’eterna dualità di amore e morte. Tutto ciò spiega il successo che ebbe presso i soldati nelle due guerre mondiali, i quali scorsero nel destino dell’alfiere, universale e senza tempo, l’espressione del loro “disagio doloroso”, di cui hanno parlato storici come George L. Mosse o Eric J. Leed (si veda di quest'ultimo No Man's Land: Combat and Identity in World War I).

Sulla scorta della glorificazione della guerra e della morte, così cara a un autore come Ernst Jünger e che tanto contribuì a miti come quello del campo di battaglia di Langemarck (poi sfruttato dai nazisti), un testo come quello rilkiano finì con il far parte del corredo di tutti i militari tedeschi, che lo tenevano nella giberna mentre dalle loro labbra usciva il Deutschlandlied: l’insensatezza della morte da giovani si accoppiava all’esaltazione dell’eroismo, in una perenne oscillazione tra l’esagerazione dell’onore e la tristezza di ogni perdita. Non a caso uno delle prime righe di questo poemetto in prosa dice: “Und der Mut ist so müde geworden und die Sehnsucht so groß” ("E l’animo si è fatto così stanco e la nostalgia così grande", tr. it. di Maria Teresa Ferrari, Pordenone, Studio Tesi, 1988, p. 9).

Lo stesso Rilke ha sottolineato come il suo itinerario poetico lo abbia portato a un apprendistato in cui ha tentato di “divenire cosa fra le cose”: solo se il poeta impara a essere una cosa potrà aspirare alla condizione di essere uno strumento “cieco e puro” dell’inconoscibile che lo utilizzerà. Come ha osservato Furio Jesi, “già nella prima produzione rilkiana compare il tema dell’intérieur, lo spazio conchiuso d’elezione per imparare dalle cose”. Va però considerato che nello spazio dell’interiorità, nel Weltinnenraum di Rilke, non c’è posto per i simboli troppo definiti e che rimandano a un significato ben determinato: in questo il neoromanticismo di Rilke differisce dalla temperie propriamente romantica, dove i simboli e le allegorie rivestono un ruolo fondamentale ma ben delimitato (come ben avevano capito Goethe, Schelling e Friedrich Schlegel).

Nel Weltinnenraum rilkiano più che per il simbolo c’è spazio per il Gleichnis, per la figura precaria che rimanda a una pluralità di significati altri da sé stessa. E le cose si animano perché esprimono un’autenticità in cui traspare “il loro valore umano e larico (‘larico’ nel senso delle divinità della casa)”, come lo stesso poeta si esprimeva in una lettera del 13 novembre 1925 (citata in Remo Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 72). Tra le immagini in questo testo non può che colpire la rosa, a Rilke particolarmente cara (definita nei Sonetti a Orfeo “der unerschöpfliche Gegenstand”, l’oggetto inesauribile), al punto da voler far incidere sulla sua lapide i versi: “Rose, oh reiner Widerspruch, Lust,/Niemandes Schlaf zu sein unter soviel/Lidern” (Rosa, contraddizione pura, piacere d’essere/il sonno di nessuno sotto tante/palpebre, tr. di Giuliano Baioni).

Non a caso in questo testo Rilke sfrutta la sensibilità neoromantica, conferendole però una particolare curvatura. L’originalità dell’invenzione rilkiana, che richiama atmosfere à la Hoffmann, consiste nell’evocazione, quasi medianica, di un presunto antenato morto giovanissimo nella guerra contro i Turchi. Ma anche qui sono le cose del passato, come il feudo o il blasone, ad animarsi, aprendosi di fronte al poeta come una sorta di barriera mobile, che le attraversa ma non riesce a possederle.

L’interpretazione dell’attrice Gabriela Corini riesce perfettamente a rendere la sensibilità rilkiana, immedesimandosi non solo nel testo, ma anche nelle scenografie da lei scelte. Come lei stessa scrive nelle note di regia, si è proposta infatti di portare in scena Il canto di amore e morte dell’alfiere Christoph Rilkein castelli ed ambienti storici, luoghi che possano palpitare con il testo in comune accordo”, in modo tale che lo spazio e la memoria, l’azione e le emozioni divengano gli strumenti idonei a una sorta di concretizzazione dell’opera poetica. In futuro si può auspicare che anche il castello rilkiano par excellence, ossia il Castello dei prìncipi von Thurm und Taxis a Duino presso Trieste, possa ospitare la lettura rilkiana di Gabriella Corini.

Di rilievo anche l’interpretazione da parte dell’attrice di alcuni versi rilkiani sulle note del traditional inglese Greensleeves, famoso per una riscrittura di Mozart e per un’interpretazione del poeta-cantautore Leonard Cohen.

Potremmo concludere citando quella che, insieme con le Elegie Duinesi, è forse la più profonda poesia filosofica di Rilke, non a caso apposta da Hans-Georg Gadamer ad exergue di Wahrheit und Methode (Verità e metodo), e che esprime perfettamente l’essenza della poesia rilkiana e la sua capacità di cogliere i più intimi recessi della realtà:

Solang du Selbstgeworfnes fängst, ist alles
Geschicklichkeit und läßlicher Gewinn-;
erst wenn du plötzlich Fänger wirst des Balles,
den eine ewige Mit-Spielerin
dir zuwarf, deiner Mitte, in genau
gekonntem Schwung, in einem jener Bögen
aus Gottes großem Brücken-Bau:
erst dann ist Fangen-Können ein Vermögen,-
nicht deines, einer Welt.
(Finché riprendi la palla che ha lanciato la tua mano,
non è che abilità e conquista facile -;
solo se all’improvviso devi prendere
la palla che un'eterna tua compagna
di gioco scagliò al centro del tuo corpo
con ben mirato slancio potente, in uno di quegli archi
di ponte del grande architetto Iddio:
solo allora è virtù il saper prendere, -
virtù non tua, di un mondo).

Tr. it. di Giuliano Baioni, in Rainer Maria Rilke, Poesie, II, Torino, Einaudi, 1995, pp. 254-255).

Pubblicato in: 
GN49 Anno III 26 aprile 2011
Scheda
Titolo completo: 

IL CANTO DI AMORE E MORTE DELL’ALFIERE CRISTOPH RILKE

Di Rainer Maria Rilke
Con Gabriela Corini
Traduzione Maria Teresa Ferrari
Adattamento Gabriela Corini
Costumi Daniela Fè
Ufficio stampa Rocchina Ceglia 3464783266
Amministrazione Iris
In collaborazione con Clanis Service
Con il Patrocinio del Municipio Roma XX

TORRETTA VALADIER

Piazzale di Ponte Milvio , Roma
Da 16 al 20 aprile 2011
Ore 21.15
Ingresso libero su prenotazione

Anno: 
2011
Voto: 
9