Identità Virtuali. Il potere degli ego digitali alla Strozzina

Articolo di: 
Alberto Balducci
Evan Baden - Lila with Nintendo DS

Quando si cominciò a parlare di Web 2.0 (era circa il 2005) tutti noi ci chiedemmo cosa significasse a livello sociale questa sorta di aggiornamento globale di tutta la rete. Ebbene la risposta, dopo qualche anno, è semplice: la convergenza tra vita virtuale e vita reale; o meglio, in termini più psicologici, la dispersione dell’io nelle onde del mare della rete. Questo, a grandi linee, il tema esplorato dagli artisti nella mostra Identità Virtuali (aperta fino al 27 Luglio 2011) presso il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze.

Noi tutti popolo di internet siamo ben consci di cosa ha significato l’avvento dei social network, a partire dal ’99 quando con Napster (la prima applicazione p2p di larga diffusione per condivisione di musica) conoscevamo persone in base ai gusti musicali e gli chiedevamo dove aveva trovato l’ultimo disco del tal gruppo un mese prima dell’uscita nei negozi.

Era l’inizio della rivoluzione. Quello che negli anni ottanta, senza avere la minima idea di cosa realmente significasse, chiamavamo cyberpazio sull’onda dell’ultimo filone originale della fantascienza, il cyberpunk di Sterling e Gibson, è un mondo parallelo, ma con radici che vanno giù profonde nella civiltà “reale”, e con un peso altrettanto reale. Mai una sfilza di 1 e 0 hanno avuto una somma così imponente.

E così, abbiamo quell’evoluzione naturale che dai siti personali ha fatto nascere i blog (la possibilità di condividere qualsiasi cosa senza avere conoscenze informatiche), e poi MySpace (music sharing + proto blogging), e poi DeviantART o Etsy (condivisione e commercializzazione delle pulsioni creative, digitali o artigianali), e poi Facebook o LinkedIn (condivisione del circuito famiglia/amici o lavorativo), e poi Twitter (il microblogging, un blog ristretto come un caffè, e come esso più incisivo e concentrato), solo per dirne alcuni, e poi… qualcosa sarà già nato e aspetta solo di essere utilizzato dalla massa. + like.

L’urgenza umana che porta a tutto questo è la necessità d’interrelazione. Posso sbagliare, ma la monade leibniziana che costituisce ogni individuo ha un terrore abissale del vuoto che racchiude in sé come un uovo che sta per essere bevuto da chissà cosa.

La difficoltà odierna di intessere e mantenere relazioni interpersonali durature si riflette, nella rete, nella facilità di raggiungere milioni di utenti (non persone, utenti) in un batter d’occhio. Il risultato è che la percezione della personalità si smembra in molteplici direzioni, perché quel brandello di me che condivido con l’ignoto utente anonimo è qualcosa di parziale che non può essere riconnesso e rapportato col tutto della mia persona.

Ma per esaminare più in profondità le cause e gli effetti di tutto questo, è bene sfruttare gli esempi e gli studi forniti dagli artisti in mostra. Cominciamo da Christopher Baker, con la sua video installazione Hello World! or: How I Learned to Stop Listening and Love the Noise, dove l’artista lastrica una parete con più di 5000 video di YouTube a mo’ di mattonelle. I filmati sono tutti di persone che parlano di se stesse agli utenti anonimi che inciampano sul loro video. Questo caleidoscopio d’immagini che si fondono sulla retina come macchie di colori indistinti e le storie di ciascuno che si disperdono nel rumore risultante, sono un’ottima rappresentazione grafica della disgregazione della personalità nell’oceano della rete.

Oppure, altra opera che incide più o meno sullo stesso ambito, Mass Ornament di Nathalie Bookchin giustappone in sequenza tramite split screen una lunga serie di video (la fonte è sempre YouTube) di persone che ballano da sole nella propria stanza. Il risultato è quasi una coreografia. Il privato diviene pubblico, e suo malgrado s’innesta in un disegno globale.

Da questa distanza, ciascuno è uguale a tutti gli altri, non c’è nessuna differenza. Tutti mattonelle intercambiabili. Eppure le storie di ciascuno sono uniche, irripetibili e bellissime, sempre. Il problema forse è l’aver smesso di ascoltare, come dice Baker, o di ballare solo in privato.

Così diventiamo informazione grezza (raw data – c’è un passaggio di Idoru, un romanzo di William Gibson degli anni 90, in cui il protagonista si accorge della morte di una certa persona perché essa da un certo momento in poi non genera più informazione nella rete). Vi siete mai chiesti come può Google essere la superpotenza che è, soltanto grazie a due-tre parole scritte in un campo di testo?

Ecco come: in mostra c’è un’installazione multimediale, Metropath(ologies) del Sociable Media Group (nato nell’ambito del MIT, Massachusetts Institute of Technology) che consta di un terminale su cui il visitatore è invitato a inserire il prorpio nome e cognome. Poi un programma di ricerca analizza le informazioni disponibili da una miriade di fonti, e le proietta nella stanza sotto varie forme e su varie superfici. Grafici, immagini, sfilze di numeri e parole… una rappresentazione (anche esteticamente accattivante) del nostro io virtuale. Information is power.

E se nel mio caso il 90% delle informazioni raggranellate dall’applicazione si riferiva a un mio parente quasi omonimo, per l’utenza della rete non fa differenza. Quelle sono le informazioni collegate al mio nome, e tanto basta: io sono quello, nel bene e nel male.

Questo scherzo però può anche costare caro, perché il mondo virtuale e quello reale sono sempre in un più profondo amplesso. L’installazione I am Neda, realizzata dal CCCS stesso, esamina proprio questo: la docente di letteratura inglese Neda Soltani, fu scambiata (a causa del profilo su Facebook, per una quasi omonimia e una relativa somiglianza fisica) per Neda Agha-Soltan, la ragazza uccisa durante una protesta in Iran nel 2009. Questo le provocò non poche noie governative, tanto che oggi vive da rifugiata politica in Germania. La “vera” Neda, intanto, è divenuta un’icona globale.

Tutto nella rete gira attorno a questo concetto di informazione. E “informazione” non è “conoscenza”; non mi stancherò mai di dirlo. Conoscenza è esperienza diretta, consapevolezza. Conoscere è essere. Nella rete non c’è niente di tutto questo. I dati devono essere trasportati nella realtà e vissuti per essere trasmutati alchemicamente in qualcosa di cui potersi nutrire. I dati che sfruttano le multinazionali sono freddi e morti.

Esempio: The Catalogue, di Chris Oakley. Individui videosorvegliati in uno shopping center, ciascuno catalogato con la lista dei suoi acquisti, con data, codice prodotto… Da persona a “potenziale d’acquisto”.

Tutto questo funzionerà finché il sistema sarà questa sorta di post-capitalismo contemporaneo, ma già oggi scricchiola così forte che sembra sia sufficiente una brezza notturna un po’ più decisa per far andare tutto a rotoli, altro che i “venti del cambiamento”. Quelli sono già in moto da un pezzo. Beato chi non se n’è accorto.

Altro esempio di schematizzazione estrema: i Feltron Annual Report (di Nicholas Felton), veri e propri rapporti annuali in cui l’autore esamina con statistiche ogni singolo fatto della propria vita, creando tabelle e grafici dal design accattivante, sulla musica ascoltata, l’attività fisica svolta, il cibo, gli acquisti… precisi al millesimo. L’artista asserisce che questo modo di procedere gli consente di evidenziare e comprendere aspetti altrimenti non così evidenti della propria personalità. A me vengono in mente i dischi dei Throbbing Gristle, gli Annual Reports appunto, l’industrial music for industrial people. Sono passati 35 anni, ma sono cambiati solo i mezzi.

Oggi infatti abbiamo una nuova tipologia di individuo: il digital native, cioè coloro che sono cresciuti con internet (e che forse sono solo una specializzazione dell’industrial people di cui sopra). Il fatto è che il futuro della società dipende dalle loro scelte, che saranno prese inconsapevolmente, in modo spontaneo.

Da un lato, abbiamo la cancellazione del confine psicologico tra reale e digitale; un’opera mostra questo in modo pressoché perfetto: Immersion di Robbie Cooper. Essa consta solo di una serie di video di ragazzini che videogiocano, ripresi dal monitor verso cui sono rivolti. Tristezza, interesse, curiosità, profonda compartecipazione… la sequenza di espressioni (o la loro glaciale assenza) che si sussegue su questi volti è drammaticamente simile a quella che dovrebbe manifestarsi in una conversazione partecipe con un’altra persona.

Così si formano gli ego virtuali, e da lì i gruppi e le comunità virtuali. Se otto anni fa si guardava a Second Life come il futuro, una vera e propria vita parallela con un avatar che fosse un nostro io sublimato e ideale, oggi questo pare vecchio e noioso. Ciò che condividiamo sono pezzi reali di noi, senza pudore o censure, nel disperato tentativo di raggiungere qualcuno a cui importi. La fisima odierna per la privacy che tanto impazza nel mondo delle legislature e della politica, per il popolo della rete è lettera morta.

Addirittura il materiale per un’opera, Paris Street View di Michael Wolf, è desunto totalmente da Google Street View: sono istantanee di persone riprese dalla Google Car al suo passaggio in quella strada.

La rete si fa beffa di privacy, diritto d’autore, originalità, verosimiglianza. Tutti questi punti devono ancora essere affrontati compiutamente dalla filosofia contemporanea; ma come disse Einstein “non si può risolvere un problema ragionando con la stessa mentalità con cui si è creato”.

Fatto sta che questi io virtuali, composti come abbiamo visto solo da parzialità decontestualizzate della personalità di ciascuno, sono esposti a milioni di utenti; essi conseguono cioè un peso specifico enorme, ben più alto di quello del nostro io “reale”. Ecco perché in un diagramma presente nella mostra il tassello centrale recita: “ME 2.0 – Online digital egos take over”. Da qui si dipartono speranze fulgide per il futuro (“One net, one nation”) così come rischi altissimi (perdita della personalità, cyberterrorismo, controllo delle informazioni).

Il collasso dell’identità virtuale in quanto entità a sé stante rispetto a noi è analizzato dall’opera Seppukoo del duo lucchese Les Liens Invisibles. Seppukoo è un sito web che nel 2009, per un mese, ha consentito agli utenti di Facebook di cancellare il proprio profilo in modo plateale, un suicidio ritualizzato per lasciare il network conservando intatta la propria dignità come un antico samurai. Poi, dopo che 20.000 persone avevano compiuto questo estremo gesto virtuale, il sito fu querelato dal social network e costretto a chiudere il servizio. Le multinazionali soffrono di una patologica assenza di senso dell’umorismo.

Ma questo trasformare l’individuo in dati porta anche a un paradosso: l’immortalità digitale negli hard disk di Google, o chi per lui. Il collettivo svizzero etoy.CORPORATION sta sviluppando il progetto Mission Eternity, e in questa mostra ci espone 16 Tamatar being Timothy Leary, in cui 16 sfere di polistirolo si muovono in un corridoio in base a dati caricati dentro di esse. I dati sono raccolti in un’unità centrale che conserva informazioni di ogni tipo (testi, video,  audio, ecc) su Timothy Leary, cosicché il grande studioso (che studiò gli effetti dell’LSD) può rivivere in eterno sotto forme e interpretazioni diverse della sua vita. O meglio, dei dati che abbiamo a disposizione della sua vita.

La rete diviene così una sorta di dimensione atemporale, quasi eterna (almeno finché dura la carica degli hard disk). Si sconfina, qui, nel para-religioso. Per chiudere infatti, la prima opera in mostra, la bella serie The Illuminati di Evan Baden: giovani nativi digitali che interagiscono con i loro apparecchi, totalmente immersi nel loro iPhone o schermo di computer, i volti illuminati soltanto dalla luce che da essi proviene.

In quest’effetto quasi da visione mistica, dove una fredda luce elettronica è l’unica fonte che dissipa l’oscurità che avvolge ogni altra cosa, troviamo rappresentato il potere e la meraviglia che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo digitale. 

Pubblicato in: 
GN54 Anno III 30 maggio 2011
Scheda
Titolo completo: 

Identità Virtuali
20 Maggio - 17 Luglio 2011

Centro di Cultura Contemporanea Strozzina
Palazzo Strozzi, Firenze

Artisti in mostra

  • Evan Baden
  • Christopher Baker
  • Natalie Bookchin
  • Robbie Cooper
  • etoy.Corporation
  • Nicholas Felton
  • Les Liens Invisibles
  • Chris Oakley
  • Sociable Media Group
  • Michael Wolf
Anno: 
2011