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Il servo ungherese. Il destino di una civiltà
Il servo ungherese è un film straziante. Straziante quanto l’attualità di una situazione politica che non è cambiata da quando è uscito il film nel 2004. E non è cambiata perché la società riflessa in essa non medita su se stessa ma sulle sue sovrastrutture, arrugginite fino alla paralisi.
Il film è un’apoteosi dell’oggi, e trasforma la guerra infame, lo stesso genocidio, in un genocidio della cultura, perché questo è e nient’altro, un paese che non punta sui suoi talenti naturali per costruire una realtà creativa e non un’apodittica del passato. La persecuzione dell’oggi è identica a quella di ieri perché fa strage dell’identità. La stessa moglie del maggiore nel film è un eufemismo di come la superficie risplenda dell’opulenza esteriore, di come lo stesso maggiore, dopo un lampo epifanico, possa ripiombare nella mollezza dell’essere ripetitivo, nel sorriso plastico di tanti mostri di oggi che di reality non hanno proprio niente.
Allora chi è Il servo ungherese? Il servo ungherese, con la sua musica struggente, è il canto del cigno dell’intellettuale sconfitto che diventa servo della gleba, del teorico al servizio dello stato, del ricercatore compresso negli interessi del sistema.
Ma nel film non è così. Nel film Il servo ungherese Miklos non diventa tutto questo e continua a respirare, sebbene tra i vapori pestilenziali di una fabbrica di morte e di morti, dove il lavoro non rende liberi ma schiavi prima di tutto di sé stessi, come la bella e infantile moglie del maggiore, che assorbe solo la nota di testa del gas, senza rendersi conto del veleno di fondo.
Dopotutto bisogna continuare a vivere. Con cosa? Un bagaglio disprezzato (quello della cultura), un amore epistolare (Julianna), una speranza che potrebbe volgere in disperazione? Forse, in tutto questo rumore di fondo solo la musica di Davide Liuni può elevarsi che, come la sceneggiatura di Piesco, è stata premiata (Stele d’Argento per le musiche). Una giovane musica che esordisce con le note melanconiche del lamento, un inno a qualcosa di assoluto che si perde nel tempo, un contenuto che vuole esplodere ed invece racconta. Una narrazione a quattro mani, come se loro due, Miklos e Julianna, la scrivessero insieme, alternando le loro lettere ai loro vissuti, le gioie fugaci della sopravvivenza ad un triste ardore che rimane conchiuso in una lapide di memoria, perlopiù indicibile.
La musica, come l’arte, la poesia, riecheggiano come ricordi: pietre che rotolano vicino ai fumi densi dei lager. E quei tocchi di colore che i condannati gettano sulla tela sono simili a strappi in fondo al cuore, eppure sono gli unici che, suadenti, conducono lo spettatore al lato emozionante del film, quella ricca opera che, compenetrando l’umano, allo stesso tempo lo fa trasalire di gioioso dolore. Trascendente in sé stesso il canto della giovane ebrea sale, e si staglia sullo schermo come una lama che vibra ritorta su sé stessa per perforare. Una lama che sebbene ferisca e sia un segno di morte, si agogna fosse anche l’ultima esalazione, quando di respiro si può emettere solo quello. Bisogna ricominciare a respirare, a esalare, ad esultare, fra le grigie nebbie per marchiare a fuoco col colore quelle onde che narrate rivelano i percorsi del cuore.