Mercadante Napoli. Terrorismo nel Giulio Cesare contemporaneo

Articolo di: 
Pietro Puca
Giulio Cesare Mercadante

La riproposizione del teatro di Shakespeare è sempre interessante per la profondità e l’universalità dei temi affrontati e il Teatro Stabile di Napoli nella passata e attuale stagione ha messo in cartellone titoli interessanti e significativi: nessuno può dimenticare lo splendido King Lear della passata stagione o il Macbeth di quella attuale. Il tema del potere, della sua gestione e della corruzione prosegue con la messa in scena,dall'8 al 19 febbraio, del Giulio Cesare nel moderno adattamento di Àlex Rigola e la traduzione di Sergio Perosa.

Cominciamo col dire che la grandiosità del dramma consiste nel rovesciamento dei valori imposto da Shakespeare rispetto all'antica e medievale vulgata – peraltro caldeggiata in modo sublime nell’Inferno dantesco –, che vede i cospiratori Bruto e Cassio come traditori della patria e condannati a essere in eterno maciullati nelle due bocche di Satana in compagnia dell’altro illustre traditore, Giuda: segno che i traditori di Cristo e della Chiesa e dell’Impero sono messi sullo stesso piano di eterna infelicità infernale.

Con Shakespeare la prospettiva è completamente capovolta e i cospiratori sono completamente riabilitati: la prospettiva è quella del sostanziale ribaltamento della res publica da parte di Cesare l’«usurpatore», al quale il Senato ha concesso una carica che nella Roma repubblicana non aveva mai avuto ricetto: la dictatura perpetua. In base ad essa, il grande condottiero avrebbe acquisito una figura molto simile al dispotico basileus (βασιλεύς) orientale o, peggio ai reges verso cui la civiltà romana ebbe sempre un’atavica avversione, al punto tale che, quando a partire da Cesare i successivi principes acquisirono sempre maggiori poteri (seppur mascherati dalla continuazione delle istituzioni repubblicane), essi acquisirono la denominazione di “imperator”, mai di rex.

Bruto e Cassio, pertanto, sulla scorta dell’insegnamento del grande ed inflessibile Catone, sono da considerarsi quali liberatori della res publica e non traditori dello Stato. Visione mirabile quella di Shakespeare, ancor più dirompente se la si colloca nel quadro dell'assolutismo (seppur costituzionale ed illuminato) della monarchia elisabettiana.

Di qui il testo complesso e lungo sulla natura del potere, sulla corruzione degli uomini e sulle divisioni tra essi che il potere giustifica e induce, onde il triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso è destinato rapidamente a disgregarsi mercé l’accentramento del potere nella mani di uno solo che poco alla volta e surrettiziamente voglia restaurare le antiche e odiate istituzioni regie.

La complessità del dramma, che queste righe solo possono appena adombrare, pare essere stato recepita solo in parte e da una prospettiva non del tutto condivisibile dalla regia di Rigola, colpevole, a nostro avviso, di aver troppo caricato politicamente l’intera messa in scena.

Basti por mente all’interrogativo iniziale (scritto a caratteri cubitali sulla scena ad inizio spettacolo) se sia possibile che “un premio Nobel per la pace possa aver ordinato l’uccisione di qualcuno” con tanto di fotografia (ben nota al lettore per essere la stessa entrata nell’immaginario collettivo mediante i media) del presidente Obama, del segretario di Stato Clinton e della corte di generali in trepida attesa circa l’esito dell’operazione che avrebbe portato alla morte del terrorista Bin Laden.

A ciò seguiva la ben nota, tristissima fotografia del bimbo siriano morto sulle spiagge della Turchia a seguito del naufragio. Operazione che non condividiamo perché, lungi dal porsi quale denuncia del cattivo uso del potere, essa si staglia quale elemento eterogeneo con sfondo strappalacrime rispetto all'universale miseria umana che sempre ha caratterizzato e caratterizzerà la bestia trionfante che serpeggia nell’umano consesso.

Quanto all’interrogativo iniziale, potremmo rispondere con le parole di Socrate in procinto di morire nel celebre Fedone platonico, onde una società più giusta nasce da una più ingiusta, e viceversa, in un movimento elicoidale ove tutto quanto è soggetto alla generazione ed alla corruzione è destinato ad autogenerarsi partendo dal suo contrario. È così che Socrate sarà messo a morte in base a leggi ingiuste e da una società ingiusta che lo accuserà ingiustamente, e da quella morte nascerà una società più giusta, perché conscia del suo fatal errore.

L’immagine del piccolo Aylan disteso bocconi comparirà successivamente, alla fine del secondo atto, quando gli attori avranno l’avranno freneticamente disseppellita dal cumulo di ossa che ne nascondevano la visione agli spettatori: l’esercizio del potere conduce alla mostruosità della morte del futuro, del bimbo nel quale l’intera umanità si riconosce, sicché la tragica fine del piccolo è la morte interiore di tutti.

Ma a meno di non caricare di un significato anarchico l’intero dramma shakespeariano, cosa a cui non vogliamo e non ci sentiamo di indulgere, possiamo affermare che quelle scelte registiche si pongono al di fuori ed al di là dell’opera e non ne condividiamo le conclusioni. Resta pur sempre una lettura stimolante e foriera di dibattito che tuttavia tradisce l’intento universalistico del Giulio Cesare per riproporre una generica compassionevole e pietosa denuncia sociale delle sofferenze di migranti traditi da quel potere che, invece, avrebbe dovuto proteggerli.

Degno di nota della messa in scena è che Giulio Cesare è una donna, Maria Grazia Mandruzzato, scelta originale, vuoi perché anche le donne “in carriera” sono in grado di gestire il potere in modo inflessibile e determinato al pari degli uomini, vuoi perché l’assassinio di Cesare è destinato a caricarsi del significato femminicida, altro omaggio a un tema tristemente caro alla ribalta delle cronache dei giorni nostri.

Sta di fatto che la Mandruzzato non pare avere né il physique du rôle né il carisma adatto a gestire un personaggio tanto imponente, finendo con l’assumere una caratterizzazione alquanto ieratica ed assorta del condottiero, slegata dagli eventi che poi lo condurranno alla morte.

Lo spettacolo alterna anche brevi momenti musicali rap che incorniciano il celebre monologo di Bruto in ordine al potere politico ed alle trame di palazzo, l’unica parte della tragedia a restare intatta nella generale rivisitazione individuale dell’opera.

Resta comunque il plauso per la scelta del Teatro Stabile di un allestimento coraggioso e non indulgente al facile gusto del pubblico (in ogni caso Shakespeare non è mai facile), il cui filo conduttore è la denuncia sociale contro lo sfruttamento e lo sviamento del potere adoperato in modo distorto rispetto al fine istituzionale per cui lo stesso è stato creato; e indubbiamente il regista si è cimentato a piene mani in questo proposito per il quale ci si augura un'ulteriore riflessione, anche filologica e rispettosa del testo originale, che non per questo è destinato a perdere la sua comunicatività e la sua capacità di indurre alla riflessione.

Pubblicato in: 
GN18 Anno IX 3 marzo 2017
Scheda
Titolo completo: 

Teatro Stabile di Napoli

8-19 febbraio 2017

GIULIO CESARE
di William Shakespeare
Traduzione: Sergio Perosa
Adattamento e regia: Àlex Rigola

Con Michele Riondino

E con Maria Grazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba,  Raquel Gualtero, Beatrice Fedi, Andrea Fagarazzi

Spazio scenico: Max Glaenzel
Spazio sonoro: Nao Albet
Illuminazione: Carlos Marquerie
Costumi: Silvia Delagneau
Assistente alla regia: Lorenzo Maragoni
Foto di scena: Serena Pea

Produzione: Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale