Musei Capitolini. Winckelmann e il tesoro di antichità

Articolo di: 
Nica Fiori
Ricostruzione studiolo con Antinoo

Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), definito da Goethe “Novello Colombo”, in quanto “scopritore di una terra a lungo presagita, menzionata e discussa… un tempo conosciuta e poi nuovamente perduta” è universalmente noto come il fondatore dell’archeologia moderna, per l’impulso rivoluzionario da lui dato allo studio della scultura antica. A 300 anni dalla sua nascita e a 250 anni dalla sua morte (anniversario che ricorre nel 2018), i Musei Capitolini gli dedicano la grande mostra “Il tesoro di antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento”, a cura di Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce.

Il grande studioso tedesco in effetti fu fondamentale per la valorizzazione del patrimonio del museo a partire da quando giunse a Roma nel 1755, grazie a una borsa di studio conferita dal principe elettore di Sassonia. Dopo la sua prima visita ai palazzi del Campidoglio scrisse ad un amico: “Qui è il Tesoro delle antichità di Roma e qui ci si può trattenere in tutta libertà dalla mattina alla sera”. Winckelmann, che fino all’età di 38 anni era vissuto nella natia Prussia e in Sassonia, rimase affascinato dall’Urbe e riportò sui suoi taccuini le descrizioni di tutte le collezioni romane (oltre al Museo Capitolino, visitò tutti i palazzi nobiliari) e le sue interpretazioni dell’antico. A Roma, dove ebbe anche incarichi pubblici, risiedette fino al 1768 sviluppando, attraverso lo studio della storia dell’arte e del disegno, l’impostazione che è ancora alla base degli studi della scultura antica.

Prediligeva sicuramente l’arte greca, della quale definì i quattro stili fondamentali, ovvero lo stile arcaico, l’elevato (intorno alla metà del V secolo a.C. con Fidia, Policleto e Alcamene), il bello (con Prassitele, Lisippo e Apelle) e l’arte dell’imitazione (corrispondente al periodo ellenistico e romano). A proposito della sua predilezione per l’arte greca si scontrò con Piranesi, che invece sosteneva la supremazia dell’arte romana. Come lo stesso Piranesi, si interessò anche all’arte egizia o d’imitazione egizia, che a Roma era di casa, non soltanto per gli obelischi eretti in molte piazze romane, o per la nota Piramide Cestia, ma anche per i manufatti provenienti dall’iseo Campense e dal Canopo di Villa Adriana, che all’epoca erano conservati nel museo capitolino e che furono in seguito trasferiti nei Musei Vaticani.

Il Settecento è indubbiamente un periodo caratterizzato dal collezionismo ed è proprio in questo secolo che nasce a Roma sul Campidoglio il primo museo moderno, cioè usufruibile da tutti. Venne fondato da Clemente XII Corsini nel 1733 in seguito all’acquisto di 416 sculture della collezione di Alessandro Albani (una parte era stata già venduta al principe di Sassonia), che vennero sistemate nel Palazzo Nuovo. Ma già prima Clemente XI Albani, protagonista in contemporanea di una mostra nel Pio Sodalizio di Piceni (“Clemente XI collezionista e mecenate illuminato”), aveva fatto realizzare nel cortile del Palazzo dei Conservatori il cosiddetto Portico della Roma Cesi, con la Roma triumphans e due prigionieri Daci, tuttora in loco, e quattro statue egizie colossali attualmente nei Musei Vaticani.

A Benedetto XIV Lambertini si devono invece le sale egittizzanti del museo (nel Palazzo Nuovo) e la creazione della pinacoteca nel Palazzo dei Conservatori. La mostra capitolina è “diffusa” in più sedi, ovvero le sale espositive di Palazzo Caffarelli (cui si accede dal cortile del Palazzo dei Conservatori), le stanze di sinistra al piano terra del Palazzo Nuovo, aperte per questa occasione, e le sale espositive dello stesso Palazzo Nuovo. La sede principale dell’evento è quella di Palazzo Caffarelli, dove sono esposti documenti originali, libri, disegni, incisioni, dipinti, sculture antiche e moderne, in grado di narrare i primi anni di vita del Museo Capitolino, a partire dall’importante premessa dell’allestimento del portico Cesi, alla sistemazione della collezione Albani, ad opera del marchese Alessandro Gregorio Capponi, che aveva spinto Clemente XII al suo acquisto per non disperdere all’estero il patrimonio artistico romano, fino alla pubblicazione (1741-1755) del primo catalogo illustrato del museo.

Tra le opere prestate da altri musei segnaliamo le sculture antiche, provenienti dalle Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, che un tempo facevano parte della collezione Albani nel palazzo di via delle Quattro fontane e che ora si ricongiungono alle opere della stessa collezione confluite nel museo Capitolino. Dai musei di Valence e Valenciennes e dal Getty Museum di Los Angeles provengono le vedute e i disegni a sanguigna del francese Hubert Robert (1733-1808), che documentano la piazza del Campidoglio nella seconda metà del Settecento. Dal Prado di Madrid e dalla Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini provengono i capolavori di Pompeo Batoni raffiguranti importanti personalità del periodo di Winckelmann. Tra questi è il fastoso Ritratto del principe Abbondio Rezzonico, realizzato da Batoni nel 1766 e acquistato recentemente dal Mibact per la Galleria Nazionale d’arte antica. Il principe, nipote di Clemente XIII Rezzonico (pure ritratto dallo stesso Batoni), commissionò questo grande dipinto (quasi 3 m di altezza e 2 m di larghezza) in occasione della sua nomina a Senatore di Roma, e pertanto Batoni l’ha ritratto con virtuosistica perizia con alle spalle la scalinata del Campidoglio.

La sezione propriamente dedicata a Winckelmann ci fa conoscere alcuni aspetti del suo soggiorno romano, i luoghi in cui abitò, le biblioteche, le ville e i palazzi frequentati. Particolarmente significativi sono i tre tondi che facevano parte dell’Istituto Germanico sul Campidoglio, raffiguranti tre illustri archeologi, tra cui ovviamente lo stesso Winckelmann. Tra i personaggi della sua cerchia troviamo il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), con il quale progettò di scrivere un’opera sul gusto degli artisti greci, il cardinale Alessandro Albani, del quale divenne bibliotecario e anche amico, lo scultore Bartolomeo Cavaceppi, con il quale collaborò all’elaborazione di un nuovo metodo di restauro delle sculture antiche. Fu proprio Cavaceppi ad accompagnare Winckelmann nel suo ultimo viaggio in Germania e a lui si deve il resoconto degli ultimi giorni di vita dell’archeologo fino alla tragica morte a Trieste, dove venne assassinato in una locanda.

Nel Palazzo Nuovo, dove prosegue la mostra, è il Tesoro di antichità cui si fa riferimento nel titolo della mostra: si tratta di opere talmente pregevoli che troviamo raffigurate in tutti i libri di Storia dell’arte, ma in questo caso una selezione di 30 opere scultoree vengono raccontate attraverso le parole di Winckelmann. Forse non tutte le sue interpretazioni risultano attualmente valide, ma sono importanti per comprendere il suo metodo e per renderci conto di quanto egli abbia influito sul gusto neoclassico dell’epoca. Particolarmente interessante è la sezione sugli allestimenti perduti (in particolare lo studiolo con l’Antinoo), ospitata nelle sale al pianterreno che finora erano adibite ad uffici.

Pubblicato in: 
GN9 Anno X 5 gennaio 2018
Scheda
Titolo completo: 

Il tesoro di antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento Musei Capitolini

Piazza del Campidoglio, Roma 7 dicembre 2017 - 22 aprile 2018

Orari: tutti i giorni 9,30- 19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima) Biglietto integrato mostra più museo: 15 euro (13 per i residenti a Roma); ridotto 13 euro (11 per i residenti); gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente Catalogo Gangemi editore