Palazzo Braschi. Artemisia: il dramma e la vendetta

Articolo di: 
Giulio de Martino
Artemisia

Una mostra filologicamente agguerrita, intitolata Artemisia Gentileschi e il suo tempo, si visita al Museo di Roma - Palazzo Braschi, fino al 7 maggio 2017. Un lavoro di destratificazione ideologica e di ricostruzione storica e estetica della figura della grande pittrice seicentesca – come ha illustrato Nicola Spinosa durante la presentazione alla stampa e come è ribadito nel pregevole catalogo di Skirà – non era più rinviabile vista la grande popolarità di cui gode oggi.

L’idea è di inquadrare Artemisia nella pittura di metà Seicento esplorandone le complesse collaborazioni e gli spessori artistici, ma anche le valenze sociali, celebrative e spettacolari. Si vedono ventinove dipinti di Artemisia Gentileschi e sessanta dei suoi contemporanei – prestati da 80 musei e collezionisti diversi – che illustrano con colori sgargianti e immagini di grande impatto un'esperienza pittorica tra le più suggestive del sec. XVII. Visitata la mostra, si può affermare che la missione cui si sono dedicati Nicola Spinosa, per l’ideazione e la sezione napoletana, Francesca Baldassari, per la sezione fiorentina e Judith Mann, per la sezione romana, sia pienamente riuscita.

Artemisia Lomi Gentileschi (1593-1653) va recepita oggi spingendosi oltre la biografia romanzata che le dedicò Anna Banti (Artemisia, Firenze, Sansoni, 1947) e dimenticando la figura patetica che ne emergeva. Artemisia non è stata solo una vittima, una donna ferita dalla vita: ce lo dicono le ricerche negli archivi. Fu piuttosto una persona energica e abile: pittrice prodigiosa nonché egregia impresaria di sé stessa. Le disgrazie patite – la violenza carnale giovanile e le vicissitudini in cui incorse – le seppe affrontare con piglio, riuscendo ad affermarsi come persona e come artista. Dopo una vita movimentata e costellata di successi fu sepolta - secondo le fonti - nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma. “Heic Artemisia”: fu scritto sulla sua perduta lapide.

La storiografia d’arte ci dice che il pittore Orazio Gentileschi ebbe quattro figli e che la primogenita Artemisia fu quella di maggior talento. Cresciuta nel mondo del naturalismo e della riforma del caravaggismo, eccelleva nella riproduzione realistica degli oggetti e nel ritrarre la figura umana: il dipinto Susanna e i vecchioni, del 1610, ne è la prova. L’anno successivo, ancora molto giovane, Artemisia avrebbe subito violenza da Agostino Tassi, un pittore e collega del padre. Nella sezione di apertura della mostra si vedono sue opere del primo periodo romano: Susanna e i vecchioni (1610), Danae (1612 ca.), Giuditta e la fantesca Abra (1613 ca.) accanto al David con la testa di Golia (1610 ca.) di Orazio Gentileschi e Maddalena in meditazione di Jusepe de Ribera e alti dipinti che aiutano a riconoscere lo stile di Artemisia e a differenziarlo da quello dei pittori del suo tempo.

Nel 1613, dopo il drammatico processo a Roma, Artemisia si trasferì alla corte di Cosimo II de’ Medici a Firenze. Durante gli otto anni di soggiorno nel granducato toscano, Artemisia conobbe Galileo Galilei – di cui apprezzò gli apporti scientifici e naturalistici – e si fece interprete originale delle influenze caravaggesche che unì a nuovi suggerimenti e stimoli. Ammessa all’Accademia del Disegno nel 1616, conobbe il pittore Cristofano Allori e Ludovico Cigoli.

Fondamentale per il successo professionale di Artemisia, fu Michelangelo Buonarroti il Giovane, scrittore di vaglia e pronipote del celeberrimo artista (1568-1646), che divenne suo mecenate e protettore. A lui si deve l’incontro della pittrice romana con Laura Corsini, committente di Giuditta decapita Oloferne (1617) – dipinto che sarà prestato dal museo di Capodimonte dal 17 febbraio 2017 – soggetto analogo a quello  della più tarda tela oggi agli Uffizi, Giuditta che decapita Oloferne (1620-21 ca.). Alla forza drammatica di una pittura della seduzione, della violenza e della vendetta, che sceglie i soggetti biblici più trasgressivi, la Gentileschi aggiunge una visione teatrale e la cura di dettagli spesso sontuosi, cromaticamente esaltati. Altro punto forte della sua pittura, oltre al sangue, fu la rappresentazione della nudità femminile e della sua bellezza seducente. Lei stessa era una donna molto bella e comprese l’importanza di produrre un'immagine nuova, insieme vincente e rischiosa, della condizione femminile.

Importante fu anche la conoscenza di Jacopo Corsi, l’ideatore della musicale Camerata de’ Bardi, che le fece intuire dimensioni estetiche e teatrali nuove per la pittura. Si vedono in mostra: La Conversione della Maddalena (1616-17 ca.) e Giaele e Sisara (1620), accanto a tele quali Giuditta con la testa di Oloferne (1620) di Cristofano Allori, Giuditta e la fantesca (1620 ca.) di Andrea Commodi, Pietà (1618) di Filippo Tarchiani, Venere piange la morte di Adone (1625-26 ca.) di Francesco Furini, Davide uccide Golia (1620-1622 ca.) di Filippo Tarchiani, Apollo che scortica Marsia (1630 ca.) di Bartolomeo Salvestrini, Noli me tangere (1618 ca.) di Battistello Caracciolo.

Nel periodo 1620-1627 Artemisia fece ritorno a Roma. Sappiamo che ebbe problemi di debiti e che dové lasciare Firenze. Oltre al marito aveva un premuroso amante - Francesco Maria Maringhi – che le aveva fornito il denaro necessario per ritrasferirsi nella città natale, dove abitava in via del Corso con il marito, la figlia Palmira e i servitori, prendendo in affitto una seconda casa in via della Croce. Il nobile Francesco Maria Maringhi, come testimoniano lettere appassionate, la salvò anche dall’accusa di furto di colori quando scappò con i figli, da Firenze. A Roma Artemisia si fece nuovi amici, non pagò i debiti e tornò a essere grande tra i grandi del suo tempo. Fra gli artisti attivi a Roma in quel periodo, il pittore che probabilmente esercitò una maggiore influenza su di lei fu Simon Vouet, che la ritrasse con la tavolozza e i pennelli in un celebre dipinto (1625). Le opere di Artemisia Gentileschi presenti in questa sezione sono: Santa a mezzo busto (1630 ca.), Ritratto di gonfaloniere (1622), Ritratto di dama con ventaglio (1620-25 ca.) accanto a opere quali Il suicidio di Lucrezia (1624 ca.) e La circoncisione (1622) di Simon Vouet, Giuseppe e la moglie di Putifarre (1620 ca.) e Giaele e Sisara (1620 ca.) di Giuseppe Vermiglio e altre.

Nel 1629, dopo essere stata a Venezia, Artemisia si trasferì a Napoli su invito del viceré spagnolo, il duca di Alcalá, che era stato a Roma suo committente e collezionista. Tra le opere dipinte a Napoli: l’Annunciazione del 1630 (Museo di Capodimonte) e la Nascita del Battista del 1635 (Museo del Prado). Importante fu la collaborazione con pittori quali Massimo Stanzione e Il Domenichino, impegnato dal 1631 a Napoli nella decorazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Tra il 1635 e il 1637, Artemisia operò anche in collaborazione con Ribera, Lanfranco, Finoglio, Francesco Fracanzano e Agostino Beltrano, realizzando tele per il Duomo di Pozzuoli, restaurato dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631. Per tanto lavoro si avvalse della collaborazione operativa di Viviano Codazzi e di Domenico Gargiulo (Micco Spadaro). In questa fase Artemisia seguì il naturalismo di Jusepe de Ribera e il rigoglio cromatico di Vouet. Sappiamo dagli storici che si avvalse anche della mano del giovane Bernardo Cavallino in Loth e le figlie oggi al Museo di Toledo (Ohio). In questa sezione della mostra le opere di Artemisia Gentileschi sono confrontate con soggetti analoghi e complementari di altri artisti, evidenziando la circolazione di un vero e proprio stile dell’epoca. 

Fra il 1638 e il 1639 Artemisia fu a Londra, dove si era recata per raggiungere il padre Orazio anziano e malato, che vi risiedeva dalla fine del 1625 e che avrebbe assistito fino alla morte nel febbraio del 1639. Lì avrebbe lavorato prima per George Villiers, duca di Buckingham, e per la corte di Carlo I Stuart. Nei suoi viaggi era accompagnata dal fratello Francesco. Delle tele attribuite alla Gentileschi registrate negli inventari dei beni del re e della regina è oggi identificabile soltanto l’Allegoria della pittura di proprietà della Royal Collection. Le altre opere furono disperse alla vendita dei beni di proprietà della corona dopo la decapitazione di Carlo I nel 1649. Tra le opere presenti in questa sezione: Loth e le figlie (1628) di Orazio Gentileschi e Cleopatra (1639-40 ca.) di Artemisia Gentileschi.

La mostra, di forte impianto storico-artistico, documenta l’intero arco della vita e dell’opera di Artemisia Gentileschi e unisce a una robusta impaginazione critica e filologica unìeccellente godibilità consentendoci di apprezzare una pittura giunta ai vertici della sua capacità di comunicazione estetica e culturale.

Pubblicato in: 
GN8 Anno IX 23 dicembre 2016
Scheda
Titolo completo: 

Mostra: Artemisia Gentileschi e il suo tempo

Sede: Museo di Roma-Palazzo Braschi - ingresso da Piazza Navona, 2 e da Piazza San Pantaleo, 10.

Curatori: Nicola Spinosa, Francesca Baldassari e Judith Mann.

Programmazione: dal 30 novembre 2016 al 7 maggio 2017.

Orari: dal martedì alla domenica ore 10 – 19.