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In principio era la parola. La naturalità del parlare secondo Tullio De Mauro
Con il volume In principio c’era la parola?, il linguista e filosofo del linguaggio Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica Istruzione nel 2000/2001, riprende il testo di una sua prolusione universitaria per offrirci un bilancio delle sue ricerche sulla natura dei fenomeni linguistici.
De Mauro muove dall’individuare la radice nascosta del rapporto che intercorre fra lingua e società nel fenomeno della naturalità dell’essere umano. Certamente, oggi, in merito a tutto ciò, disponiamo di una mole di dati per noi inimmaginabile solo fino a pochi anni fa: dati che ci hanno permesso di configurare in modo radicalmente nuovo la dialettica che vige fra i termini che qui sono in gioco.
La rete, ad esempio, ci mette continuamente sotto gli occhi un dato: la costitutiva oscillazione, fatta di convergenze e divergenze, che investe i soggetti che parlano e che scrivono in rapporto agli standard linguistici unitari. Per non dire, poi, degli apporti che ci vengono dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze, le quali vanno sempre più sottolineando il fattore di continuità che sussisterebbe fra la spinta alla comunicazione nelle altre specie viventi e l’insorgere della facoltà del linguaggio nell’uomo.
Al riguardo, il volume cita il caso di quello che è, senz’altro, il maggiore fra i linguisti contemporanei: Noam Chomsky, il quale, dopo che, in un primo tempo, aveva sostenuto la tesi secondo cui il linguaggio sarebbe un possesso esclusivo della specie umana, ora, invece, la pensa esattamente in modo opposto.
In merito al nesso che si può rilevare fra società, linguaggio e naturalità, De Mauro, operando una ricognizione che ci riporta alle origini del problema, chiama in causa Aristotele, citando, più precisamente, quel celebre passo della Politica, in cui, dopo che della πόλις (pólis) si è detto che essa “esiste per natura”, si afferma che l’uomo è “un animale politikós”.
Uomo che, poco più in là, è qualificato anche come quell’essere che “ha il lógos” (I, 2, 1253 a, 3-10). In riferimento al termine “politikós”, si puntualizza subito quanto poco appropriato sia renderlo, in italiano, con “politico”. Più accettabile, invece, è come lo traducevano i latini: con “civilis”, dando corpo così ad un motivo che resterà ben vivo lungo tutta la tradizione umanistica italiana, nell’arco che va da Dante a Vico.
Da Aristotele, attraverso il medioevo, su su fino all’età moderna, si perviene, poi, all’“idea della ‘triunità’ – uno stato, una lingua, una nazione” (p. 23). Un’idea, di impianto monolinguistico, che oggi, però, non è più all’altezza dei tempi, anzi, è palesemente contraddetta dai fatti. Scrive De Mauro: “in ogni stato non c’è una lingua solamente, ma ci sono mediamente 35 lingue diverse, di cui almeno 12 sono anche lingue scritte” (p. 25).
Andando alla ricerca del tratto specifico che custodisce l’identità delle lingue storico-naturali, De Mauro lo individua nella cosiddetta “onnipotenza semiotica” (espressione introdotta dal linguista argentino Luis Prieto) che le caratterizzerebbe: nella loro illimitatezza o capacità di parlare di qualsiasi cosa. E ciò a differenza dei linguaggi scientifici, la cui peculiarità è data, infatti, da una “rigorosità monocorde” e “monoplanare” (p. 39). Al riguardo, già Ferdinand de Saussure affermava che, se anche ci fosse una lingua di sole due parole, ebbene, esse si spartirebbero tutta la sfera del dicibile. Ma come può una lingua storico-naturale portare ad espressione tutto ciò che è necessario al darsi di una comunità umana? Lo può sfruttando cinque diverse vie. La prima è data dal numero potenzialmente illimitato di frasi costruibili con le parole a nostra disposizione .
La seconda dalla “numerosità del lessico” (p. 45), ossia da quel fenomeno per cui parole che, in origine, sono specialistiche finiscono, poi, per ricadere nell’uso corrente. La terza via è quella che, a partire dall'indeterminatezza che hanno i significati delle parole e delle frasi, li configura così come plurideterminabili. La quarta via affida alle determinazioni grammaticali cui facciamo ricorso nel parlare la possibilità di circoscrivere o disambiguare i contenuti del nostro comunicare.
La quinta via, infine, corrisponde ad un uso particolare delle parole e delle lingue: l’uso metalinguistico-riflessivo, ossia “la proprietà per cui con le parole stesse della nostra lingua parliamo delle parole della nostra lingua” (p. 54).
Il volume si chiude ricordando che l’idea di una “valenza fondante del linguaggio”, nonché quella della necessità di una “educazione alla lingua” (p. 64), sono stabilite, con la massima chiarezza, in due documenti, entrambi del 1948: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Costituzione italiana. Quest’ultima affida all’apparato pubblico il compito di ergersi a tutela delle minoranze linguistiche, senza che si privi mai nessuno dell’esercizio del diritto a usare la propria lingua.