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L'origine del linguaggio umano. La sacralità del giuramento secondo Agamben
Una raffinata ricostruzione genealogica e “archeologica”, al confine tra filosofia e linguistica: è quella che ci propone Giorgio Agamben nel suo libro Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento.
Il giuramento viene considerato, al pari della promessa o della dichiarazione, un atto linguistico (speech act, secondo la teoria di John L. Austin e John Searle), ossia un enunciato che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato nel momento stesso in cui viene pronunciato: in questo caso, esso dovrebbe garantire la verità della promessa o dell’asserzione. Ma per Agamben, non ci si può limitare a questa dimensione pragmatica: l’importanza del giuramento consiste nel fatto che esso ha consentito all’uomo di diventare tale, trasformando il linguaggio da una capacità fra le altre, in una potenza specifica: è così che l’uomo ha definito la sua stessa natura, scoprendo sé stesso come un essere parlante, ossia come l’unico essere vivente caratterizzato da ciò che i Greci chiamavano λόγος (logos), ossia dall’intelligenza razionale che si esprime nel linguaggio.
Da questo punto di vista, si può capire perché il grande linguista Émile Benveniste abbia opposto il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e definito in modo rigido e statico, alla lingua umana, che si lascia analizzare in unità distintive combinabili (fonemi e morfemi) in modo virtualmente infinito. L’uomo ha deciso di istituire il linguaggio come qualcosa di specifico nel momento stesso in cui ha cominciato a distinguere vita e linguaggio, azioni e parole, cosa che l’animale, per il quale il “linguaggio” è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non è in grado di fare.
Il giuramento diventa così sinonimo di promessa originaria, di consacrazione (sacratio) con cui l’uomo oppone la lingua alle azioni, aprendo la strada all’antitesi tra teoria e prassi. Ma è una falsa opposizione, perché quando l’uomo è diventato capace sia di dire la verità, sia di esporsi alla menzogna, allora ha aumentato la sua responsabilità, impegnandosi a rispondere delle sue parole anche con la vita, se necessario. Non a caso il rovescio del giuramento è lo spergiuro, proprio solamente degli uomini. Gli dèi, infatti, possono solo proferire giuramenti, giacché la loro parola testimonia con assoluta certezza della propria veridicità. I λόγοι (logoi) degli dèi sono implicitamente giuramenti (ὅρκοι - horkoi).
Il giuramento in questo senso somiglia al mana, una sorta di qualità interiore comune sia agli esseri viventi, sia agli oggetti inanimati, evocata nei riti magici delle cosiddette società primitive. Come ha spiegato il grande antropologo Claude Lévi-Strauss, recentemente scomparso, il mana non è tanto una potenza sacra autenticamente misteriosa, quanto un vuoto di senso che esprime l’inadeguatezza fondamentale del rapporto tra significante e significato, o meglio il valore indeterminato della significazione; allo stesso modo il giuramento esprime l'esigenza, decisiva per noi in quanto animali parlanti, di mettere in gioco nel linguaggio la nostra natura e di legare insieme in un nesso etico-politico le parole, le cose e le azioni.
È a questo punto che nel pensiero occidentale si presenta anche l’esperienza della filosofia, che, come ci spiega Agamben, “comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio [nel duplice senso di “scrupolosa osservanza delle formule e norme rituali” e “sacrilegio, maledizione”] della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono, o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all'idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica” (p. 98). Ecco perché la filosofia realizza la critica più radicale della nozione del giuramento, rendendo problematico il vincolo “sacro” che lega l'uomo al linguaggio, senza per questo cadere nella vanità del discorso privo di senso o nella falsità della menzogna.