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La colonna infinita di Eliade. Monumento transilvano con echi borgesiani
Il 29 e il 30 maggio scorsi è andata in scena nella suggestiva cornice dell’Accademia di Romania a Villa Borghese la pièce teatrale La colonna infinita, nell’ambito della manifestazione artistica Spazi aperti, con la regia di Letteria Giuffrè Pagano. Si tratta di un testo, pressoché sconosciuto in Italia, scritto dal grande storico delle religioni Mircea Eliade (Bucarest 1907 – Chicago 1986) e dedicato allo scultore Constantin Brâncuşi (Hobiţa, 1876 – Parigi 1957).
Il tema de La colonna infinita, icasticamente tradotta da Horia Corneliu Cicortaş, intreccia numerose tematiche artistiche ed estetiche con spunti filosofici e matematici. Nella pièce si riscontrano numerosi temi dell’Eliade studioso di cultura rinascimentale e di scienze esoteriche.
Lo spettacolo si svolge come un paradossale dialogo in forma di monologo: la voce recitante dell’attore - lo straordinario Tazio Torrini, capace di recitare indissolubilmente con la voce, la mente e il corpo - si rivolge ad un Altro immaginario, che altri non è che il doppio di sé stesso. Come non è possibile realmente creare qualcosa di diverso dalla propria opera prima, così, viene quasi suggerito, non è possibile dialogare realmente con altri interlocutori che con sé stessi. È questo il dramma di Brâncuşi, che emerge con particolare pathos nel testo di Eliade: “bisogna diffidare di chi, se ha fatto una copia perfetta della propria opera, pensa di non potersi più superare!”.
Brâncuşi aveva cominciato la costruzione della colonna infinita in una città prossima al suo paesino d’origine, Târgu-Jiu (dove venne inaugurata nel 1938), per poi proseguire a Parigi, con continue copie e rifacimenti. La "colonna infinita” si caratterizza per non avere né un centro, né un inizio né una fine: si tratta di un’opera d’arte che da un lato riprende le antiche forme lignee dei pilastri che sorreggono le case tradizionali rumene, dall’altro è intessuta di simboli che rimandano a raffinate concezioni esoterico-filosofiche, ben note a Eliade, che si era addottorato su temi di filosofia rinascimentale e aveva studiato direttamente in India i testi Vedānta. Ad esempio, l’idea che la divinità sia una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, presente in Alanus de Insulis, Giordano Bruno e Blaise Pascal. Idea cara anche a Jorge Luis Borges, che la cita più volte nelle sue opere. E Brâncuşi per molti versi ricorda il borgesiano Pierre Menard, autore del «Chisciotte»: la differenza sta nel fatto che mentre Menard riproduceva incessantemente un’opera altrui, Brâncuşi ricrea senza sosta la sua propria opera.
Del resto, ne La colonna infinita viene espressa una precisa poetica: quella per cui le forme artistiche debbono suggerire l’infinito e quasi aiutare a conoscerlo. E il protagonista sottolinea più volte che “l’opera d’arte è uno strumento di contemplazione”. La creazione artistica implica peraltro uno sforzo continuo, una tensione simile al romantico Streben, che tende verso il cielo: quest’ultimo come tale è un concetto illusorio che dipende puramente dall’artista. Il cielo comincia a esistere nello stesso momento in cui viene eretta la colonna che si innalza all’infinito: è un infinito “attuale”, non potenziale; l’artista non può concepire una colonna più alta di quella che ha concretamente realizzato, perché quest’ultima altrimenti non sarebbe più realmente infinita. D’altro canto, la colonna infinita è un evidente simbolo di un axis mundi, ossia di un legame occulto che collega il cielo e la terra: come dice lo stesso Eliade, è un “pilastro celeste” quasi teso a sorreggere i cieli nel mentre i suoi segmenti romboidali si susseguono ritmicamente e invitano ad arrampicarsi suggerendo la possibilità dell’ascensione (che è anche una vera e propria ascesi mistica).
La colonna infinita è anche una sorta di manifestazione del sacro, di ierofania, per usare un termine coniato dallo stesso Eliade. Essa somiglia al labirinto e al monumento che lo stesso Brâncuşi aveva progettato per il mahārāja di Indore, dove bisogna passare sottoterra per giungere alla perfetta contemplazione: il vero tempio non è il luogo dove le persone si adunano per pregare e per eseguire i sacrifici, osserva acutamente Eliade, ma è quel luogo del nostro mondo che non ha mai fatto realmente parte di esso e dove gli uomini si riuniscono per meditare.
La colonna di Brâncuşi rimane però qualcosa di irrisolto, in ultima analisi: le idee non vengono trasferite compiutamente nella materia e da vecchio l’artista fa copie dei propri capolavori, non creazioni ex novo, come quelle senili di Tiziano e di Tintoretto. Da questo punto di vista, le arti figurative non possono partire da ciò che sembra il non essere, pur non essendo tale; poeti e musicisti hanno il silenzio come loro pendant negativo. Gli artisti figurativi avrebbero il buio, ma non tutti sono in grado di contrapporre al buio la luce da cui trasmutare la materia: solo quando sarà pronta si vedrà che la colonna è realmente infinita.
E per aggiungere un’altra suggestione borgesiana, si potrebbe paragonare la funzione della colonna infinita a quella dell’Aleph della novella omonima del grande scrittore argentino: l’Aleph è il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, potenzialmente infiniti, visti da tutti gli angoli; e allargato all’universo, esso somiglia a una delle colonne di pietra della moschea di Amr, al Cairo, nel cui interno i fedeli sanno che è racchiuso tutto l’universo.
Lo spettacolo è stato scandito da una suggestiva colonna sonora, costituita da un brano del compositore tradizionale rumeno Grigore Leşe (Trimăs-o împăratu, dal disco Cântece de cătănie) e da tre brani del compositore minimalista statunitense Philip Glass, tratti dall’opera concept Satyagraha (Protest, Tolstoy Farm ed Evening Song). La scelta non ci è sembrata casuale: si è passati da una musica che rimanda alle radici quasi primitive del folklore mitteleuropeo a una musica sperimentale che esprime da un lato la contemporaneità d’avanguardia e dall’altro la dimensione globale tipica della World Music, riallacciandosi anche alla tradizione induista così cara ad Eliade. Stupisce semmai che non si sia fatto ricorso a un’opera del musicista sperimentale ungherese György Ligeti, intitolata proprio Colonna infinita (Coloana fără sfârşit): si tratta di uno studio per piano solo (n. 14) ispirato direttamente alle proporzioni della scultura di Brâncuşi e strutturato come una spirale di scale ascendenti all’infinito.
Da notare poi le suggestive riprese di Stromboli ed i cromatici particolari ritratti dai dipinti della regista Letteria Giuffrè Pagano.