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Žižek. L'eresia del Cristianesimo
Il cuore perverso del cristianesimo, l'ultimo libro pubblicato da Meltemi del filosofo sloveno Slavoj Žižek, almeno ad un primo sguardo, pare risolversi in un infinito susseguirsi di smascheramenti e di ribaltamenti dialettici. I personaggi che ossessionano le pagine zizekiane non solo non sono quello che sembrano ma, più alla radice, non sono quello che sono.
Così, è la loro stessa lotta a costringere l’ateo e il religioso a rinunciare l’uno alla libertà per la quale combatte la religione, l’altro alla religione stessa. La presa di distanza interiore dal ritmo frenetico della competizione mercantile non è che il modo in cui il buddista occidentale si rassegna tranquillamente al dominio del capitale.
In piena buona fede, poi, il fanatico liberale, per difendere la democrazia dal terrorismo o il proprio diritto alla privacy, è disposto a gettar via, con la democrazia, anche la propria intimità, sciorinandone i segreti in un qualche talk show televisivo. Il cittadino delle cosiddette ‘società permissive’, infine, è spinto dal desiderato cadere di divieti e tabù non ad una più piena realizzazione o libertà ma, al contrario, verso ansie e sensi di colpa che lo costringono ad esporsi spontaneamente a nuove forme di controllo. La trasgressione stessa viene assoggettata alla norma, negata nella sua possibilità: che cosa vuol dire, infatti, violare una legge che chieda solo di essere violata?
Anche senza un simile pullulare di personaggi e di colpi di scena concettuali, basterebbe l’insospettata buona accoglienza riservatagli dall’Avvenire a consigliare la lettura di un libro che si propone di mostrare come solo l’ateo marxista possa dirsi veramente cristiano. Nonostante le apparenze, non si tratta di una boutade. Contro la tendenza a ridurre il cristianesimo a ‘religione civile’, garante della pace sociale e dell’ordine costituito, ciò che Žižek intende riportare alla luce è la radicale ‘trasvalutazione dei valori’ in esso portata a termine, il suo carattere intrinsecamente eretico, destabilizzante.
In questa direzione, è innanzitutto la disperazione espressa nella domanda “Padre, perché mi hai abbandonato?” che richiede di essere presa sul serio. Solo sullo sfondo di una piena partecipazione alla fragilità della condizione umana l’angoscia di Gesù può essere reale, la sua morte altro dalla ridicola messa in scena che sarebbe se, più che umano, avesse conosciuto in anticipo la propria resurrezione.
Sacrificio cieco e senza ricompensa, gratuito e insensato come ogni atto d’amore: solo così la Croce giunge ad imporre il proprio scandaloso messaggio di vita ovvero, sospendendo la validità della Legge mosaica, a cancellare assieme il dominio del peccato e della morte. Sta precisamente qui, per Žižek, la polemica attualità del cristianesimo.
Dalla moderna affermazione della vita contro ogni causa che la trascende è la vita stessa, infatti, ad essere depotenziata e negata, ridotta ad una non-morte che è anche non-vita, perché la vita “non coincide mai con sé stessa”. E' sempre anche quell’intensità, quell’eccesso che la collocano al di là della ‘mera vita’. Nulla più che umano, Cristo è già quell’eccesso, prossimo al nietzschiano oltre-uomo, alla sua capacità di accogliere ed affermare la vita nella sua lacerata interezza.
Nel sacrificio di Cristo trova la propria più recisa confutazione, dunque, quell’idea di ‘sacralità’ che finisce per ridurre la vita a zoê, a puro fatto biologico, a mera sopravvivenza. Il kamikaze palestinese è ‘più vivo’ dello yuppie che fa jogging per tenersi in forma. Poiché libertà è sempre irruzione di una differenza, effrazione di quell’ordine che la Legge, nella sua astrazione, nella sua estraneità, è incapace di affermare se non con la violenza.
In senso terroristico, la morte di Gesù e quella del kamikaze sono null’altro, in realtà, che un identico atto di liberazione e, forse, un unico gesto d’amore, come Žižek provocatoriamente afferma. Amore e libertà, nel loro carattere intrinsecamente eslege, sono infatti una cosa sola: una medesima violenza, una stessa crepa negli equilibri costituiti. Ma non è qui, nell’identità tra sacrificio della vita e quell’eccesso il quale solo è ‘vera vita’, che si nasconde per Žižek il senso più profondo della sospensione della Legge da parte dell’Amore. Né nell’assunzione a modello di perfezione di un essere radicalmente imperfetto, nella misura in cui solo a chi conosce la sofferenza e la morte – e dunque anche il peccato, la caduta che le ha generate – è concesso di amare. Sospesa dall’Amore, infatti, la Legge se ne trova al tempo stesso compiuta.
È in questo senso, ulteriore e perverso, che Žižek riprende criticamente le analisi svolte da Giorgio Agamben nel suo commento all’Epistola ai Romani di San Paolo, ripensando il nesso di Amore e Legge nei termini dell’Aufhebung hegeliana (concetto che sintetizza in sé l’atto del togliere e la conservazione, per superarle entrambe). Da una parte, se Gesù è Dio, allora sacrificando sé stesso a sé stesso, pagando in vece dell’uomo il prezzo dei suoi peccati, Dio libera l’uomo, assieme, dalla Legge e dal peccato. Questo dono, d’altra parte, nell’atto stesso di soffocare la voce della Legge e di restituirgli con ciò la libertà, rende inestinguibile, infinito il debito dell’uomo.
Rispondendo “niente!” al partner che le chiede “che cosa vuoi da me?”, la donna intende dire “tutto”, perché ciò che desidera è una resa totale, non negoziata. Allo stesso modo, è quando la Legge tace, cessando cioè di esigere alcunché di determinato e divenendo – come l’imperativo kantiano o la Legge kafkiana – pura (forma di) legge priva di contenuti, che nulla le sfugge. Rimettendo al soggetto che le è subordinato il compito di determinare i propri compiti, la Legge, superata, trova la propria compiuta realizzazione nella comunità dei fedeli.
È nell’abnegazione e nella rinuncia, allora, che l’uomo trova la propria liberazione e la più alta affermazione, la propria gioia: non più sottomesso alla legge, in questo libero dono di sé egli incarna la Legge e la rende obsoleta.
Libertà non è, qui, sbarazzarsi del desiderio dell’Altro (del Padre/Legge), dell’enigma che esso rappresenta, ma la necessità di interpretare senza appigli questo desiderio (‘Padre, perché mi hai abbandonato? Che cosa vuoi da me?’), non più come qualcosa di esterno, di estraneo, un’imposizione arbitraria, ma come un appello che ha il solo senso che noi, autonomamente, gli prestiamo.
Nel rimettere all’uomo il compito di dare un senso al proprio sacrificio – che di per sé stesso ne è privo –, alla domanda che esso rappresenta, Dio scommette sull’uomo, e fa palese che non c’è nessuna esterna garanzia di sensatezza. L’unico modo di intervenire nella storia era ‘precipitare’ in essa, farsi uomo, e rivelare così, con la propria impotenza, il fatto che il rapporto tra uomo e Dio non è altro che quello dell’uomo con sé stesso, con l’altro uomo. Che l’Altro, cioè, è solo l’Altro che sta nel cuore dello Stesso.