Ricordo di Umberto Eco. L'uomo dalle tre anime

Articolo di: 
Teo Orlando
Eco

Lo scrittore latino Aulo Gellio riteneva di Quinto Ennio che avesse “tre anime in quanto parlava greco, osco e latino” (Noctes Atticae 17.17). Se avere tre anime vuol dire esprimere in tre maniere diverse un’unica visione del mondo, allora nessuno come Umberto Eco (1932-2016) ha manifestato nella sua straordinaria e poliedrica opera una simile virtù.

La prima anima è stata per lui quella dello studioso rigoroso, del filosofo che, dietro l’apparenza di una enorme erudizione, di un’ineguagliabile acribia esegetica e di una sottilissima finezza interpretativa, ha in realtà sviluppato un discorso di grande originalità che lo ha condotto a decodificare ogni genere di segni, da quelli dell’estetica di San Tommaso, oggetto della sua tesi di laurea con Luigi Pareyson e Augusto Guzzo (1954), a quelli dei mezzi di comunicazione di massa e dei fumetti: la cattedra di semiotica all’università di Bologna (1975) consacrò quest’anima come un necessario suggello.

La seconda anima fu quella del narratore, che non cominciò, come di solito si crede, con Il nome della rosa (1980), bensì con il Diario minimo (1963), per poi concludersi con Numero zero (2015). Non si tratta di una sorta di "esilio interno" rispetto all’attività teorica, come pure qualcuno ha suggerito, quasi un volersi sottrarre all’impegno del pensiero affidando alla scrittura narrativa ogni tentativo di decifrare il mondo (il medievista Massimo Parodi, parafrasando Ludwig Wittgenstein, ebbe a dire che ad Eco potrebbe attagliarsi la frase: “Id, de quo sylogizare non licet, enarretur” – Di ciò di cui non è lecito sillogizzare, si narri), bensì di una sorta di azione parallela in cui la propria volontà di scrittura diventa un impegno diretto sulla realtà, benché le sue opere narrative sembrino obbedire a una fredda e formale logica combinatoria, ma certo meno esasperata di quella dell’ultimo Calvino.

Lo stesso Eco, in un saggio compreso in Opera aperta (“Del modo di formare come impegno sulla realtà”) sottolineò come “l’accettazione di una data struttura narrativa presuppone l'accettazione di una certa persuasione dell'ordine del mondo rispecchiato dal linguaggio che uso, dai modi in cui lo coordino, dai rapporti temporali stessi che in esso si esprimono. Nel momento in cui l’artista si accorge che il sistema comunicativo è estraneo alla situazione storica di cui vuole parlare, deve decidere che non sarà attraverso l’esemplificazione di un soggetto storico che egli potrà esprimere la situazione, ma solo attraverso l’assunzione, l'invenzione, di strutture formali che si facciano il modello di questa situazione. Il vero contenuto dell'opera diventa il suo modo di vedere il mondo e di giudicarlo, risolto in modo di formare, e a questo livello andrà condotto il discorso sui rapporti tra l’arte e il proprio mondo” (pp. 269-270).

La terza anima è quella apparentemente più "lieve", del giornalista di costume, dell'autore di pastiches e divertissements irriverenti, del moralista à la Voltaire, del parodista, ma anche del critico implacabile delle mode culturali, delle degenerazioni della società, delle ideologie politiche nefaste. Ma è proprio in questa dimensione che maturano alcuni dei suoi interventi più significativi, che lo vedono impegnato in un'attività "militante" (a partire almeno dai corsivi che firmava su il manifesto con lo pseudonimo joyciano Daedalus), culminata nello scintillante saggio sull'Ur-fascismo (pubblicato in Cinque scritti morali, 1997). In questo Eco rivela una notevole affinità con Theodor W. Adorno, da lui intervistato per la RAI e da cui lo divide l'indole "tragico-savia, scontrosa e selvatica" (Thomas Mann) del filosofo tedesco, dato che Eco ha sempre guardato il mondo cercando nell'ironia dissolutrice lo strumento che avrebbe riscattato la realtà da ogni nefandezza (probabile lascito del magistero di Pareyson e delle sue ricerche sull'estetica romantica. Del resto, quando nel 1965 si produsse in un elogio della sua nativa Alessandria, ebbe a dire che a quella città doveva il suo scetticismo, la sua "indifferenza per i Valori astratti", la sua "diffidenza per il Noumeno", che sono stati la cifra del suo pensiero).

Dire pensiero significa che Eco è stato in primo luogo un filosofo, piuttosto che un letterato, cosa che spesso si tende a dimenticare. Lo stesso appellativo di "semiologo" non è un surrogato di altri possibili epiteti, ma indica come la sua ricerca filosofica si riconnetta alla nobile tradizione della "scienza dei segni", dagli stoici a Ockham, da Locke a Bolzano, da Peirce a Husserl, da Saussure a Jakobson.

Le ricerche di filosofia del linguaggio, cominciate con una summa filosofica di notevole impegno teorico e storiografico, come La struttura assente (1968), culminarono poi con il Trattato di semiotica generale (1975), in cui delineò in termini nuovi e originali lo statuto filosofico della semiotica, cercando cioè di esplorare la possibilità di uno studio unificato di ogni fenomeno di significazione e di comunicazione: la semiotica qui sembra oltrepassare i confini di una disciplina filosofica specifica, diventando quasi un'intera filosofia, nella misura in cui studia tutti i processi culturali come fenomeni comunicativi sotto i quali si profila uno strato profondo inteso come sistema di significazione. 

Uno dei contributi più originali di Eco sta nel fatto che distinse una teoria dei codici e una teoria della produzione segnica, senza però assolutizzare la nozione di segno, né quella di struttura, come pure avevano fatto alcuni padri nobili dello strutturalismo (ad es. Lévi-Strauss, che aveva quasi ontologizzato la nozione di struttura).

Del resto, la sua semiotica si collocava su un versante post-pragmatista, che teneva cioè conto della lezione di Charles Sanders Peirce, ma cercava poi di andare al di là di essa, superando anche eventuali tentazioni di tipo biologico-comportamentista: il processo di produzione segnica si configura così alla stregua di un comportamento umano intenzionale e sociale. Visione che ha dei precedenti illustri, dal Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen al filosofo italiano Ferruccio Rossi-Landi. A ciò Eco associò in qualche modo un orizzonte marxista, nella misura in cui la semiotica si poneva come una forma di discorso ideologico che, tuttavia, produce una critica dell’ideologia e quindi una delle forme della prassi. 

Nel 1984 esce, per i tipi della Einaudi, il volume Semiotica e filosofia del linguaggio, che raccoglie e rifonde una serie di voci enciclopediche pubblicate in un’opera della stessa casa editrice. Eco puntualizza la distinzione tra la semiotica generale, come disciplina costituzionalmente filosofica, e le semiotiche specifiche, intese come grammatiche di particolari sistemi di segni. Per certi versi questa distinzione può somigliare a quella tra linguistica generale e grammatiche delle varie lingue. Tuttavia, la linguistica generale ha nella stessa filosofia del linguaggio una sua “concorrente” scientifica (mentre a un livello più generale si situerebbe una filosofia della linguistica, peraltro poco sviluppata), che spesso si interseca anche con la semiotica.  

In Semiotica e filosofia del linguaggio, Eco ha soprattutto analizzato cinque categorie chiave, ossia segno, significato, metafora, simbolo e codice. Esiste una stretta relazione tra queste categorie, soprattutto in virtù del fatto che il significato viene concepito come parte essenziale di una pratica semiotica del testo ed è connesso con una rete di rinvii: da questo punto di vista, possiamo parlare di struttura enciclopedica della semiotica testuale. Tuttavia, Eco ha più volte pronunciato dei caveat contro ogni tentativo di focalizzare sull’atto dell’interprete ogni opera di decodifica testuale. Sotto quest’aspetto, la polemica contro Derrida e i decostruzionisti è evidente, perché Eco contrappone il concetto peirciano di semiosi illimitata a quello di decostruzione anarchica

Del resto, per molti versi le sue concezioni della semiotica sono direttamente discendenti da Peirce. In particolare, del grande filosofo americano Eco accoglie la concezione della comunità interpretante come “terza dimensione” del segno linguistico, come ha fatto anche il filosofo tedesco Karl-Otto Apel.

Sebbene nelle sue opere i rimandi a Husserl non siano così frequenti come quelli a Peirce, è mia convinzione che vi siano analogie tra la concezione della semiotica di Eco e quella esposta dal filosofo austro-tedesco nei suoi primi scritti fino alle Logische Untersuchungen. Mi sembrerebbe opportuno anche rimandare al fatto che le nozioni husserliane di “ontologia formale”, intesa come lo studio delle relazioni tra gli oggetti (logici) e le loro parti, e di “logica formale”, intesa come lo studio delle strutture dei significati ideali, possono venire re-interpretate come le basi “metafisiche” della semiotica, ovviamente nel senso in cui i filosofi analitici parlano di “metafisica”.

Negli anni '80 e '90 l'impegno teorico prosegue anche sub specie fabulae, ossia attraverso le tesi disseminate nei romanzi. Ne Il pendolo di Foucault (1988), viene data forma narrativa all'idea di complotto cosmico: è una variante della teoria della cospirazione correlata a un'origine gnostica, come tentativo di liberarsi dal rimorso e dalle responsabilità individuali che concorrono al male nel mondo. Il primo ad aver messo in evidenza il tema della cospirazione è stato il grande filosofo Karl R. Popper, di cui Eco riprende esplicitamente le tesi.

Del resto, i suoi romanzi sembrano nascere come applicazioni delle sue teorie narratologiche e semiologiche. Ad esempio, molti temi trattati in Sei passeggiate nei boschi narrativi ritornano anche nei romanzi (si pensi al rapporto tra analessi e prolessi, ossia la tematica del flash-back). Questo va contro l'idea che l'autentico narratore sia quasi un creatore spontaneo che non costruisce a tavolino il suo prodotto creativo. Ma Edgar Allan Poe (in Philosophy of Composition, opera in cui l'atto creativo del poeta viene paragonato al modo di dimostrare teoremi del matematico) e Robert Musil (che si lacerava tra anima ed esattezza) sarebbero stati d'accordo. E considerazioni analoghe si possono riscontrare in uno degli autori a lui più cari, ossia James Joyce: anche i personaggi dei suoi romanzi possono essere accostati a quelli joyciani. Ad esempio Simone Simonini, il protagonista del Cimitero di Praga (2010), è una sorta di versione negativa sia dell'Ulisse dantesco, sia dell'everyman dell'Ulysses di Joyce.  Fino alla fine non si può stabilire con certezza se Simonini abbia un alter ego reale, l'abate Simonini, o se sia un personaggio fittizio, una sua proiezione.

Dopo un apparente periodo di pausa rispetto alle opere più squisitamente teoriche (in cui però escono Lector in fabula, nel 1979, e I limiti dell'interpretazione, nel 1990), Eco torna prepotentemente sulla scena filosofica con Kant e l’ornitorinco (1997), in cui sostiene una posizione filosofica generale di tipo, per così dire, “realista”, che presenta alcune analogie con le concezioni di Hilary Putnam. Esiste un mondo reale che, anche se ammette diverse descrizioni o interpretazioni, presenta comunque delle “linee di resistenza” rispetto a un pensiero falso o inadeguato. Come Eco stesso dice, il linguaggio non crea l’essere ex nihilo.

Naturalmente, queste concezioni collidono con le tesi derridiane o comunque decostruzioniste secondo cui non c’è nulla al di là del testo. La sua semiotica ha quindi un radicamento “forte” (nonostante Eco nel 1983 abbia scritto un saggio per il volume collettaneo Il pensiero debole, sull'albero di Porfirio): le nozioni di verità e di realtà non perdono di significato nella sua visione del mondo.

Eco, peraltro, sostiene la tesi per cui non esistono interpretazioni senza limiti e che occorre apporre dei vincoli al nostro modo di interpretare e decodificare la realtà. Queste tesi emergono sia in saggi come I limiti dell’interpretazione e Kant e l’ornitorinco, sia in testi narrativi come Il pendolo di Foucault

In particolare, in Kant e l’ornitorinco, difende la necessità di aderire alla tesi per cui esistono significati fissi che resistono alle maree della reinterpretazione. Da questo punto di vista, ha polemizzato con Richard Rorty, il quale sostiene che noi abbiamo il diritto di interpretare un cacciavite come qualcosa di utile "per grattarsi le orecchie". Semmai, si può dire che con la concezione sia del significato, sia del riferimento come contratto o negoziazione, Eco abbia individuato la nozione di “verità nella finzione”.

In qualche maniera, egli riprende l'antico problema degli universali, ossia della relazione tra le cose particolari e le categorie generali. Per introdurre il problema si serve di esempi che hanno a che fare con casi che sfidano le classificazioni precedenti (Marco Polo e il rinoceronte, gli Aztechi e i cavalli, Kant e l’ornitorinco).

Queste mosse teoriche lo hanno spesso reso oggetto di critiche da parte di vari filosofi. Ad esempio, il filosofo analitico Simon Blackburn ha scritto una recensione severa di Kant e l’ornitorinco, nella quale sostiene che Eco, pur utilizzando la letteratura e, in parte lo stile, della filosofia analitica, in realtà commetterebbe i tipici “errori” dei filosofi continentali: concetti non sempre distinti, terminologia fuzzy, eccessiva abbondanza di riferimenti incrociati. Tuttavia, se dovessimo tener ferma la dicotomia tra filosofia analitica e filosofia continentale, potremmo definire Eco un "filosofo continentalitico" (mi si conceda il quasi ossimorico ircocervo), ossia un filosofo di formazione indubbiamente continentale ma che si occupa di temi coincidenti con quelli della tradizione analitica, da cui però non mutua l'esigenza di rigore ed esattezza assolute e la prosa arida e formale. Né degli analitici condivide, per usare le parole di Paolo Rossi e Franca D'Agostini, la tendenza al parrocchialismo, una certa diffidenza verso i tentativi di far interagire proficuamente concetti eterogenei, e una propensione a identificare il "rigore" con alcuni standard fissati in modo non sempre univoco nella loro comunità. 

Nel suo ultimo grande libro teorico, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l'interpretazione, Eco dedica vari paragrafi alla nozione di ontologia, messa in rapporto con il concetto di  creatività semiosica. Questa nozione di ontologia viene ricondotta alla “rappresentazione locale di una porzione di conoscenza enciclopedica rilevante ai fini di un determinato universo di discorso”, in analogia ai requisiti che il filosofo Barry Smith (anche lui un analitico, ma con ascendenze fenomenologiche e neo-brentaniane, come il suo sodale Kevin Mulligan) richiede perché un’ontologia possa ancora oggi essere considerata interessante per l’avanzamento della ricerca in vari settori della conoscenza. E questo ci sembra il suo estremo lascito filosofico.

Vogliamo concludere questo breve ricordo con due note di vissuto personale. Per una strana "sincronicità", la mattina del 19 febbraio, giorno della sua morte, avevo citato a lezione la dicotomia di Eco tra apocalittici e integrati e rispondendo a uno studente l'ho descritto come uno dei più grandi intellettuali italiani viventi che si fosse occupato in tempi remoti dell'industria culturale con intuizioni ancora validissime.

L'ultima volta l'ho incontrato all'Accademia dei Lincei, l'11 novembre scorso, al convegno in onore di Cesare Segre. Gli ho fatto omaggio del libro di Imre Toth (altro grandissimo filosofo da poco scomparso) da me curato, sulla filosofia della matematica di Gottlob Frege. Lo ricevette con molta cortesia, promettendomi di leggerlo nel viaggio di ritorno in treno. Ma scorsi nel suo sguardo, soprattutto quando lo vidi contemplare dalla ringhiera il cortile interno di palazzo Corsini, qualcosa di mestamente triste e malinconico, forse un sinistro presentimento di qualcosa di Unheimlich, come diceva Sigmund Freud. Non avrei pensato che sarebbe stata l'ultima volta in cui poterlo incontrare e ascoltare.

Del resto, come leggiamo nell'ultimo libro di Remo Bodei, Limite (Il Mulino, 2016): "Vi sono situazioni estreme su cui non possiamo intervenire, come l'ultima, invalicabile muraglia che racchiude e plasma individui e società: la morte, appuntamento segreto, certo nel suo presentarsi, incerto nella data: «La morte è il limite ultimo di tutte le cose» [Mors ultima linea rerum est] (Orazio, Epistole, I, XVI, 79). L'uomo, unico animale gettato nei «flutti del tempo» a sapere di dover morire, s'interroga sul senso del suo inaggirabile destino e reagisce con incredulità, timore o speranza di fronte alla prospettiva del proprio irreversibile mutamento da persona in cosa e all'orrenda e disgustosa prefigurazione del decomporsi del proprio corpo" (pp. 25-26). Mi sembrano parole atte a suggellare la morte di chiunque si trovi ad abitare su questo pianeta.

E come dice un sommo filosofo caro ad entrambi, Spinoza (Bodei vi ha dedicato Geometria delle passioni, Eco il capitolo della sua Storia della filosofia, curata con Riccardo Fedriga):

«L'uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita. Dimostrazione. L’uomo libero, cioè che vive secondo il solo dettame della ragione, non è dominato dalla Paura della morte (per la proposizione 63 di questa parte), ma desidera direttamente il bene (per il corollario della stessa proposizione), cioè (per la proposizione 24 di questa parte), agire, vivere e conservare il suo essere secondo il principio della ricerca del proprio utile; e perciò non pensa a nulla meno che alla morte; ma la sua sapienza è meditazione della vita. C.V.D.» (Baruch Spinoza, Etica, Parte IV, Proposizione LXVII. Trad. di Emilia Giancotti Boscherini, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 278).

Certo, nel Nome della rosa emerge alla fine una visione desolante della morte:

''Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier... Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell'abisso il mio spirito perderà sé stesso, e non conoscerà né l'uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell'intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c'è opera né immagine. Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.'' (p. 503).

Ma a noi piace pensare, come ci ha ricordato Franco Cardini, che a Eco non sarà negato un posto in paradiso, qualora esista: in fondo, da esperto di San Tommaso, ha studiato sugli stessi testi di Dio.

Pubblicato in: 
GN16 Anno VIII 25 febbraio 2016
Scheda
Titolo completo: 

Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932-Milano, 19 febbraio 2016).

Bibliografia delle opere citate nell'articolo

Il problema estetico in San Tommaso, Torino, Edizioni di Filosofia, 1956; Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, Milano, Bompiani, 1970.
Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1962; 1967; 1971; 1976.
Diario minimo, Milano, Mondadori, 1963; 1975.
Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964; 1977.
La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968; 1980.
Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975.
Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.
Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980.
Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984.
Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988.
I limiti dell'interpretazione
, Milano, Bompiani, 1990.
Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 1992.
Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994.
Kant e l'ornitorinco
, Milano, Bompiani, 1997.
Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, 1997.
Dall'albero al labirinto. Studi storici sul segno e l'interpretazione, Milano, Bompiani, 2007.
Il cimitero di Praga, Milano, Bompiani, 2010.
Numero zero
, Milano, Bompiani, 2015.