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Umberto Eco e Il cimitero di Praga. Metalinguismo in stile feuilleton
Con Il cimitero di Praga (Milano, Bompiani, 2010), Umberto Eco è arrivato al suo sesto romanzo, a trent’anni esatti dal suo esordio, con Il nome della rosa, nella narrativa italiana (benché avesse già offerto, a latere della sua attività di filosofo del linguaggio, di semiologo e di storico dell’estetica e dei mass media, delle prove raffinate e intriganti del suo talento narrativo, con varie short stories contenute in sillogi come Diario minimo, risalenti ai primi anni ’60).
Il cimitero di Praga ha l’aspetto esteriore dei feuilletons ottocenteschi, come I misteri di Parigi di Eugène Sue, a cui più volte esplicitamente si richiama, anche nella grafica, alternando caratteri dell’editoria contemporanea con quelli in uso nei libri d’appendice del XIX secolo. Con un doppio circuito citazionale, il romanzo è anche illustrato: le immagini richiamano nell’aspetto quelle dell’edizione del 1840 dei Promessi sposi manzoniani, doveroso omaggio a un autore che Umberto Eco ha sempre considerato uno dei suoi numi tutelari (contribuendo peraltro ad avallare molteplici letture dell'opera di Alessandro Manzoni come gothic novel); dall’altra parte, le illustrazioni rimandano al suo romanzo precedente, La misteriosa fiamma della regina Loana, che portava nel sottotitolo la dizione di “romanzo illustrato”.
Né si deve dimenticare che l’uso di accorgimenti grafici particolari, come l’uso di caratteri speciali, era stato da Eco già adottato ne Il pendolo di Foucault, romanzo ambientato negli anni '80 del XX secolo e nel quale alcuni capitoli riproducono la stampa di schermate di computer, segno della rivoluzione informatica di quei decenni. Del resto, si potrebbe sostenere che Il cimitero di Praga costituisca una sorta di antefatto a posteriori del Pendolo di Foucault, sia per l’affinità delle tematiche (la teoria della cospirazione, la demistificazione ironica degli argomenti esoterici e occultisti), sia per la tecnica narrativa.
In qualche modo, potremmo sostenere che Il cimitero di Praga si configura come una sorta di riflessione metalinguistica multipla in forma narrativa, vertente su numerosi linguaggi-oggetto: il feuilleton ottocentesco, le teorie narratologiche e semiologiche dell’autore, l’antisemitismo, la teoria generale della cospirazione, gli altri romanzi dello stesso Eco - che sono spesso citati con una serie di rimandi intratestuali non sempre facili da individuare -, la narrativa europea degli ultimi due secoli, soprattutto gli autori da Eco indagati in numerosi saggi, da James Joyce a Gérard de Nerval, ma senza trascurare anche echi di Fëdor Dostoevskij (che viene peraltro esplicitamente citato), Marcel Proust, Thomas Mann, George Orwell o Arthur Schnitzler, presenti sottotraccia.
La figura centrale del romanzo è quella di Simone Simonini, su cui i primi recensori hanno già versato fiumi d’inchiostro, interrogandosi sul fatto se una figura fosca e negativa come lui possa accaparrarsi una qualche simpatia presso lettori particolarmente indulgenti.
In effetti, Simonini appare dotato, pur nella serie di truffe, mistificazioni e delitti che si lascia dietro, di una sinistra umanità, costituita probabilmente da un modus operandi in parte maldestro e in parte scellerato. Come l’Ulisse della tradizione classica, egli appare come una sorta di scelerum inventor, ma eterodiretto, cosicché la sua responsabilità sembra quasi attenuata, inserita com’è in un contesto diegetico dove bisogna pazientemente seguire tutti i fili della narrazione per individuare con precisione le cause reali di ogni singola azione, spesso frutto di una serie complicata di cospirazioni e di decisioni prese da personaggi che compaiono improvvisamente, provenendo dagli ambienti delle più torbide macchinazioni politiche dell’Europa dell’epoca.
Più che l’Ulisse omerico o dantesco (che, come ha di recente osservato Massimo Cacciari, sembra quasi anticipare il nichilista ateo), Simonini ricorda una versione perversa e senza scrupoli dell’everyman dello Ulysses di Joyce: l’uomo comune che in un contesto già protodecadente decide di mettere il suo ingegno, modesto ma efficace, al servizio dei poteri dominanti dell’epoca.
E in effetti Simonini attraversa l’Europa della seconda metà dell’Ottocento calandosi spesso in eventi che lo vedono testimone e agente determinante, ma mai protagonista, in tre città essenziali: la Torino sabauda preunitaria, la Palermo occupata dai garibaldini e la Parigi del Secondo Impero, con la tragedia della Comune, la caduta di Napoleone III e il successivo affaire Dreyfus.
Il romanzo comincia con la tecnica narrativa dell’analessi o flashback: nel capitolo secondo, il protagonista, l’agente segreto e falsario Simone Simonini, rievoca in tarda maturità gli avvenimenti della sua giovinezza, utilizzando la tecnica del resoconto diaristico. Ma non siamo affatto in presenza di una narrazione lineare: ai diari di Simonini si alternano le descrizioni di un Narratore che appare come una sorta di sguardo esterno, solo apparentemente imparziale. Ma la personalità di Simonini appare sdoppiata, perché ai suoi diari si alternano alcune annotazioni di un misterioso personaggio, l’abate Dalla Piccola.
Per tutto il romanzo non sapremo mai con certezza se questo abate sia un mero alter ego di Simonini, che vivrebbe così una scissione della personalità alla Dr. Jekyll and Mr. Hyde, oppure se si tratti di un personaggio reale. L’ipotesi più verosimile è che Dalla Piccola sia un Doppelgänger fittizio, forse creatura di proiezioni inconsce di Simonini, che in passato – così si legge nel romanzo - aveva probabilmente ucciso un autentico abate Dalla Piccola, che si opponeva a qualcuno dei suoi disegni.
I diari servono a Simonini per una sorta di esercizio di autoanalisi, in modo da “mettere a nudo” la propria anima (come insegnava Charles Baudelaire, i cui diari intimi si intitolavano Mon coeur mis à nu) e venire a capo di frequenti crisi di amnesia (in questo simile a Yambo, il protagonista de La misteriosa fiamma della regina Loana), anche su sollecitazione di un “ebreo tedesco (o austriaco, ma fa lo stesso)”, ossia un certo dottor “Froïde”: dietro la grafia fantasiosa, si cela manifestamente Sigmund Freud, che in quel periodo stava conducendo a Parigi un apprendistato con Jean-Martin Charcot all’ospedale della Salpêtrière.
Alla menzione di Freud fa subito seguito una prima osservazione negativa sugli ebrei. Ben presto, emerge chiaramente che il punto focale del romanzo è costituito dall’idea che la storia sia attraversata e pilotata da una serie di complotti, orditi vuoi dagli ebrei, vuoi dai massoni, vuoi da entrambi (anche perché spesso vengono associati o ritenuti coincidenti), a cui si contrappongono i tentativi di sventarli da parte dei vari governi con i servizi segreti, assecondati da altre organizzazioni di natura dissimulatamente cospiratoria, tra cui spicca l’ordine dei Gesuiti.
Non a caso uno dei libri prediletti dal nonno di Simonini, che appare come un reazionario nostalgico del trono e dell’altare (un incrocio tra Joseph De Maistre e Monaldo Leopardi) e che cerca di educare il nipote a quelle idee, come antidoto alle pulsioni rivoluzionarie del padre, sono i Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme dell’abate Augustin Barruel, famigerato libello nel quale viene adombrata la tesi per cui la Rivoluzione francese è stata nient’altro che l’ultimo capitolo di una cospirazione universale condotta inizialmente dai Templari e poi proseguita dai massoni, dagli Illuminati di Baviera e infine dagli ebrei, tutti agenti dell’Anticristo.
Eco aveva già sfruttato questo tesi per costruire la potente macchina narrativa del Pendolo di Foucault, ma qui l’argomento viene ripreso con una dose supplementare di disincantato scetticismo. Eco stesso ha ben motivato l’origine gnostica dell’idea di complotto cosmico, come tentativo di liberarsi dal rimorso e dalle responsabilità individuali che concorrono al male nel mondo. In questo si rivela buon seguace di una tesi di Karl R. Popper, che il filosofo austro-inglese argomenta rigorosamente in Conjectures and Refutations (1969), da Eco stesso largamente citata ne I limiti dell’interpretazione (Milano, Bompiani, 1991, p. 50): la teoria sociale della cospirazione è una versione secolarizzata della credenza omerica nel potere degli dèi, ossia in una divinità i cui capricci o la cui volontà governano ogni evento.
Alla divinità vengono sostituiti gruppi di potere e di pressione a cui si può imputare la colpa di aver ordito tutti i mali e i disastri che affliggono il mondo: a questi presunti gruppi collettivi viene poi attribuita una sorta di personalità, in modo da trattarli come se fossero agenti individuali del complotto. Popper non a caso cita i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso documento confezionato dalla polizia segreta dello zar, l’Okhrana, spacciati come descrizione del progetto ebraico di dominio del mondo, in quanto esempio paradigmatico di siffatta teoria del complotto. E proprio nella redazione materiale dei Protocolli culminerà la carriera di Simonini.
Carriera che comincia nella Torino di metà Ottocento, dove il nonno, approfittando dell’assenza del padre (che morirà nel 1849 difendendo la Repubblica romana), lo educa ai valori controrivoluzionari, associati a un profondo odio per gli ebrei e a una forte diffidenza per gli altri popoli europei (divertente è la caratterizzazione che si legge nelle prime pagine di alcuni clichés xenofobi, attraverso un accorto collage di citazioni desunte dai romanzi di Garibaldi, di Céline, di padre Bresciani e dai frammenti postumi di Nietzsche).
Simone matura però anche un avversione viscerale verso i gesuiti, che, con logica da contrappasso, inducono in lui una diffidenza sprezzante per la religione cattolica: in qualche modo, siamo di fronte a un Bildungsroman rovesciato, dove più che un apprendistato positivo si compie una de-formazione in cui la personalità del protagonista si costruisce in modo patologico, tra turbe nervose e paranoie deliranti. Per certi versi, può ricordare la giovinezza di personaggi del romanzo dei primi del Novecento, come il giovane Törless di Robert Musil o lo Stephen Dedalus del Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce (e non a caso “le mani sudate” del prete che tentavano morbosamente di accarezzare la nuca del protagonista bambino sembrano riprese da un’analoga caratterizzazione nel monologo di Molly Bloom nell’Ulysses joyciano).
La morte del nonno costringe Simonini, che nel frattempo si laurea in giurisprudenza, a lavorare come apprendista nello studio del notaio Rebaudengo dove apprende la tecnica della falsificazione dei documenti (tema, quello della teoria dei falsi o fakes, a cui Eco ha dedicato uno dei capitoli più complessi de I limiti dell’interpretazione, che ha sicuramente messo a frutto in queste pagine). È qui che comincia la svolta della sua vita, perché viene presto reclutato dai servizi segreti sabaudi, che lo inviano in Sicilia al seguito della spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi. Qui egli conosce lo scrittore Ippolito Nievo, l’autore delle Confessioni di un Italiano, che funge da tesoriere nell’esercito garibaldino. Simonini riceve l’incarico di distruggere la documentazione compromettente che proverebbe il coinvolgimento dei Savoia e della Gran Bretagna nel finanziamento della spedizione. Ma Simonini va oltre il suo incarico, provocando con una carica di esplosivo l’affondamento della nave su cui viaggiava Nievo.
I servizi decidono così di mandarlo a Parigi, dove lavora per l’Impero di Napoleone III, indossando definitivamente i panni dell’agente segreto, e arrivando perfino a far credere di essere al servizio dei prussiani. È qui che matura la decisione di confezionare un documento in cui si immagina un oscuro conciliabolo dei rabbini di tutto il mondo, convenuti nel cimitero ebraico di Praga, dove ideano un terrificante piano per conquistare il mondo e distruggere il cristianesimo (notevole alle pp. 236-237 la descrizione a fortissime tinte gotiche del cimitero, che culmina con un riferimento alla “tomba di rabbi Löw, che nel Seicento aveva creato il Golem, creatura mostruosa destinata a compiere le vendette di tutti i giudei”).
Simonini si ispira in gran parte al Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu (Dialogo all'inferno tra Machiavelli e Montesquieu) di Maurice Joly, scrittore francese che conosce nel carcere dove era stato inviato dai servizi come falso detenuto. Da qui le tappe successive della carriera di Simonini si snodano lungo un percorso costellato di delitti e tradimenti, che egli sembra perpetrare senza troppi scrupoli e senza una particolare consapevolezza morale. Questa sua indifferenza morale risalta particolarmente in tutti gli ulteriori episodi che lo vedono trafficare con lo scrittore tedesco Hermann Goedsche (alias Sir John Retcliffe), e poi reggersi a galla nei giorni tragici della Comune di Parigi, fino a rientrare nei ranghi dei servizi con la Terza Repubblica di Adolphe Thiers.
Non seguiremo qui nei dettagli le vicende di Simonini. Accenneremo solo ai contatti con personaggi tenebrosi, come il sacerdote Joseph-Antoine Boullan, in realtà dedito al culto di Lucifero, e lo scrittore Léo Taxil, che passa dalla pubblicistica anticattolica di stampo massonico a un’apparente conversione al cattolicesimo, scrivendo pamphlet di denuncia antimassonica e antiesoterica. Simonini non manca di essere determinante anche nell’affaire Dreyfus, imitando la calligrafia del capitano francese e fabbricando il documento sulla base del quale questi verrà accusato di intelligenza con il nemico prussiano, degradato e condannato a una pena detentiva nell’isola del Diavolo.
Ma il fondo della sua discesa negli inferi viene toccato quando partecipa a una messa nera officiata da Boullan e dove compare una paziente di una clinica psichiatrica, Diana, a cui Simonini e Taxil avevano attribuito la stesura di alcuni libelli antimassonici. Dopo un torbido rapporto carnale con Diana (in uno scenario che ricorda Eyes Wide Shut, la trasposizione cinematografica a opera di Stanley Kubrick di Doppio sogno di Arthur Schnitzler), Simonini la strangola, perché scopre la sua origine ebraica e teme di poter diventare padre di un bambino a metà ebreo.
Il romanzo si conclude con la redazione definitiva dei Protocolli, grazie anche alla pressione esercitata dall’agente russo Pyotr Rachkovskij e con la preparazione di un attentato alla metropolitana di Parigi: Simonini dovrà collocare materialmente l’esplosivo, ma qui il diario si interrompe bruscamente, lasciando presagire la morte del protagonista.
Se si dovesse individuare un passo che funga da chiave interpretativa delle idee espresse dai personaggi che compaiono nel libro, sceglierei queste parole di Rachkovskij: “Bisogna coltivare l’odio come passione civile. Il nemico è l'amico dei popoli. Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala” (p. 400). La dissimmetria tra amore e odio è estranea alla maggior parte delle teorie filosofiche delle passioni che fanno discendere entrambi da una passione più originaria (ad es. la cupiditas in Spinoza; ma si veda la prop. XXXVIII del libro terzo dell'Ethica, per cui l'amore può trasformarsi in un odio tanto più violento quanto maggiore era l'intensità dell'affetto iniziale, su cui ha richiamato l'attenzione Remo Bodei, in Geometria delle passioni, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 339): qui invece la maggiore originarietà dell’odio sembra la cifra di un pessimismo antropologico, che però Eco ritiene di poter superare con le armi della critica intellettuale di matrice illuministica e razionalistica. In fondo, la teoria della cospirazione verrà meno quando anche i suoi inventori cadranno vittima delle sue contraddizioni.