Renato Barilli e la narrativa europea. Un affresco tra gotico e moderno

Articolo di: 
Teo Orlando
Barilli

Il libro di Renato Barilli La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (edito da Bompiani) analizza due secoli della letteratura europea, tra il ‘700 e l’800, con incursioni tra Inghilterra, Francia, Germania e Russia, dipingendo un affresco impressionante per dimensioni e di notevole impatto critico.

Il saggio rappresenta l’applicazione in chiave europea dell’approccio che Barilli aveva già collaudato nello studio Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (Bompiani, 2003). Due sono i fondamenti metodologici che si leggono sotto traccia, nonostante un intento parzialmente divulgativo (ma non da manualistica scolastica): lo strutturalismo e l’approccio comparatistico.

Viene inoltre circoscritta una nozione di modernità che si colloca tra l’Illuminismo e le avanguardie storiche: vengono così analizzati, senza distinzione di generi, gli scrittori europei che vanno da Defoe fino a Zola, passando per Swift, Balzac, Diderot, Goethe, Walpole, Dickens, Thackeray, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, senza escludere il contesto sociale in cui elaborano le loro opere, con reminiscenze dalla migliore critica marxista e sociologizzante. Anche se più che autori dell’indirizzo marxista vengono chiamati in causa sociologi nordamericani come Marshall McLuhan: a lui viene ascritto il merito di aver individuato il vero inizio della modernità nell’invenzione della stampa a caratteri mobili a opera di Gutenberg, che ha permesso al singolo individuo di leggere i testi sacri e laici nel segreto della propria privacy, dando poi vita ai valori della libertà di opinione e di coscienza  sanciti dalla rivoluzione francese, da cui in seguito scaturirà l’intraprendenza neoborghese tradotta in grande epica moderna.

Due sono i nuclei tematici particolarmente messi a fuoco: da un lato l’epopea dell’individuo borghese come self-made man, caratterizzato da interessi particolaristici e al contempo orgoglioso delle sue virtù, per quanto umiliato dall’egoismo di chi vuole impedirgli di usufruire pienamente della sua libertà condannandolo spesso a una condizione di miseria; dall’altro, il progressivo emergere del fondo inconscio dell’animo umano con tutta la sua fragilità, la sua ribelle inquietudine e le sue angosce latenti, che diventerà poi decisivo nella narrativa europea del Novecento, da Joyce a Svevo, da Proust a Kafka, da Mann a Musil, tutti più o meno contemporanei di Sigmund Freud: appare l’ombra dell’Es, da Barilli visto, con metafora ardita, come il corrispettivo psicologico di quelle tremende esplosioni energetiche che Albert Einstein contrapporrà all’inerzia frenante della massa.

Il saggio di Barilli si presenta come una singolare indagine comparatistica: infatti, per lui è possibile procedere a un’onesta analisi anche operando su traduzioni (e su questo sarebbe interessante un confronto con Umberto Eco, suo sodale nel gruppo ’63, e la teoria della traduzione che espone in Dire quasi la stessa cosa, saggio del 2003). Infatti, per il critico bolognese, nella narrativa il rapporto tra il valore intrinseco dei significanti e lo spessore contenutistico dei significati è invertito rispetto alla lirica, perché i secondi pesano più dei primi, comportando nella traduzione solo una perdita relativamente bassa del valore intrinseco dei romanzi e dei racconti sottoposti a indagine critica.

Tra le più significative pagine del libro, sono sicuramente di grande rilievo quelle dedicate al Robinson Crusoe di Daniel Defoe: non si tratta della descrizione del ritorno all’origine in nome di un malinteso primitivismo, come una sorta di “parabola di una ritrovata innocenza da Paradiso terrestre”, ma piuttosto dell’epopea del cittadino britannico che sta collaudando il suo know how in una sitazione limite in vista della creazione del grande impero. Del resto, Barilli sottolinea come sia anche ingiustificato il rilievo assoluto attribuito al Robinson Crusoe rispetto alle altre opere di Defoe, osservando come lo scrittore inglese abbia composto altri otto romanzi  (tra cui Moll Flanders e Lady Roxana, già dominati dal tema dello struggle for life) e soffermandosi in particolare sul Diario dell’anno della peste, incentrato sulla pestilenza che colpì Londra nel 1664: per lui si tratta di descrizioni che reggono perfettamente il confronto con quelle di Tucidide, Boccaccio e Manzoni, e che anzi le sovrastano per quanto riguarda la quantità di casi analizzati e l’indagine nosologica. Inoltre, anche nella catastrofe della pestilenza, Defoe sottolinea l’attivismo della popolazione e la sua ingegnosità con l’intraprendenza dei singoli che reagiscono alle insidie senza mai darsi per vinti.

Di rilievo anche le pagine dedicate ai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, interpretati come un conte philosophique e paragonati a un trattato di patafisica, ossia la scienza delle soluzioni immaginarie creata dallo scrittore surrealista francese Alfred Jarry (e poi adottata da molteplici intellettuali, da Raymond Queneau a Jean Baudrillard, e dal gruppo di musica sperimentale inglese dei Soft Machine). Notevole l’insistenza sulla proposta di eliminare il linguaggio adottata dai sapienti dell’Accademia di Lagado, i quali, avendo deciso di parlare solo mostrando – con il cosiddetto riferimento one to one - gli oggetti a cui si riferivano, giravano con colossali sacchi colmi degli oggetti "in carne e ossa": evidente parodia della ricerca del linguaggio universale o della lingua perfetta che dovrebbe servire a superare la babele del linguaggi naturali (e non a caso anche Eco cita il passo nel fondamentale saggio La ricerca della lingua perfetta).

Interessanti anche le pagine dedicate al Tristram Shandy di Lawrence Sterne, che per Barilli è senz’altro un romanzo innovativo, ma che solo in modo improprio può essere considerato un anticipatore degli esperimenti della narrativa contemporanea, da Joyce e Musil fino all’Oulipo di Queneau e Perec: Sterne si serve dei suoi espedienti metanarrativi in modo freddo, muovendosi “in un’aura rarefatta, un po’ troppo compiaciuta di sé”.

Passando alla narraviva espressa dalla stagione delle lumières francesi, Barilli sottolinea come nei contes philosophiques di Voltaire, come il Candido o lo Zadig, memori della lezione di Defoe e Swift, prevalga il mythos, ossia la trama e l’intrigo, rispetto all’ethos, ossia l’approfondimento sociale e psicologico dei personaggi, per cui le sue creature sono quasi marionette per giochi estrosi e di effetto comico.

Più vicino a Sterne appare Diderot, nel cui Jacques il fatalista Barilli sottolinea l’omaggio al modello del Tristram Shandy, ma senza la leggerezza umoristica del testo dell’autore inglese. Mentre d’altro canto di Diderot viene valorizzato il romanzo La monaca, ritenuto più profondo, dal punto di vista dell’approfondimento sociologico, della storia della monaca di Monza contenuta nei Promessi sposi di Manzoni. C’è posto, come autore di contes philosophiques, anche per il marchese De Sade, da Barilli forse sopravvalutato (operazione peraltro, quella della riabilitazione filosofica del “divin Marchese”, tentata anche da Jacques Lacan e Theodor W. Adorno), e accostato a Freud, per la presenza insopprimibile del continente oscuro dell’eros e della libido nelle sue opere: ma mentre per Freud la civiltà consiste nel trovare un equilibrio tra gli impulsi della libido e le censure del Super Io, Sade ha l’estremismo del primo scopritore che non si concede freni e inneggia a una sorta di energia primordiale, in questo da Barilli paragonato a William Blake, il quale riteneva che tale energia ci trasformasse in una selvaggia tigre pronta ad aggredire e a fugare i rischi della castrazione impostaci dal Dio biblico e vendicativo.

In ambito tedesco, Barilli sottolinea l’assoluta imprescindibilità dei Dolori del giovane Werther di Goethe, che più di ogni altro autore si inoltra nei territori del dubbio e dell’angosciata interrogazione sulle ragioni e sulle non-ragioni del vissuto psichico. Di Goethe si sottolineano anche i tratti “gotici”, evidenti nel Faust, soprattutto nell’evocazione di Mefistofele, che rappresenta una concessione al magico che sarà poi estremizzata in E. T. A. Hoffmann. Mentre di Schiller si sottolinea la minore attenzione per i valori subliminali ed ambigui, in ciò probabilmente più cauto di Goethe e perfino del nostro Vittorio Alfieri (il Don Carlos sottolinea meno del Filippo alfieriano l’ambiguo rapporto paraincestuoso di Filippo II e del figlio).

Le incursioni nel gotico rappresentano un altro punto di forza della monografia barilliana: si comincia con E. T. A. Hoffmann, definito icasticamente un “professionista del noir”: in lui l’incursione nei prodigi soprannaturali si coniuga con la scoperta dei fenomeni che la scienza moderna, con i nuovi orizzonti dell’elettrologia e del magnetismo, aveva appena scoperto: ma essi vengono quasi ricondotti nell’orizzonte del magico, in un contesto popolato da figure stregonesche, ebrei erranti, Doppelgänger, come si nota negli Elisir del diavolo.

Ma l’autentico romanzo gotico nasce in Inghilterra, come sottolinea giustamente Barilli, soffermandosi in particolare su Horace Walpole, che con Il castello di Otranto ha inaugurato il genere, e soprattutto su Ann Radcliffe, da lui nettamente preferita, soprattutto in relazione al romanzo Il confessionale dei penitenti neri: emerge qui la potente figura di padre Schedoni, personaggio satanico per molti versi ripreso dall’Innominato manzoniano, ma privo, a differenza di quest’ultimo, di rimorsi di coscienza. Ma è Matthew G. Lewis l’autore in assoluto preferito da Barilli per questo filone: Il monaco dello scrittore inglese ha come termine di paragone Hoffmann e De Sade, con la sottolineatura di quanto succede in un essere umano che cada preda delle pulsioni di eros e thanatos. La presenza stessa del demonio nel plot romanzesco consente al narratore di pronunciare un giudizio di condanna assoluta del comportamento del protagonista, il monaco Ambrosio, che cade in una spirale di tentazioni e di peccati carnali, con due donne una delle quali, Matilda, arriverà perfino a succhiare il veleno di un aspide per salvare Ambrosio da morte certa.

Troppi sarebbero ancora gli spunti racchiusi nelle 500 pagine del libro di Barilli. Qui ci limiteremo ad accennare alle fini analisi dei romanzi di Tolstoj, dove si sottolinea il ruolo dell’essere umano comune, a cui neppure i grandi individui cosmico-storici possono legittimamente sottrarre il diritto di vivere e di morire in santa pace.

E più ancora sono illuminanti le pagine dedicate a Fëdor Dostoevskij: nel grande autore russo Barilli ravvisa l’elaborazione di un’antropologia che si oppone al sistema, alla normalità delle esistenze umane corrette e prevedibili. Dostoevskij eredita il meglio dal Werther di Goethe, dalle descrizioni degli eroi di Byron e dalle cristallizzazioni di Stendhal: i momenti della vita comune vengono assurti a paradigmi, a epitomi di eventi eccezionali, come poi saranno le epifanie di James Joyce. La specificità di Dostoevskij viene comunque individuata nella tensione tra il sublime d’en haut e il sublime d’en bas: in romanzi come I demoni, L’idiota o I fratelli Karamazov traspare più che mai l’antitesi tra le nostre pulsioni più inconfessabili e aggressive e i voli d’angelo, gli atti che rivelano un olimpico disinteresse: l’episodio di Mitja, il primogenito dei Karamazov, che concede il denaro all’orgogliosa Katerina Ivanovna senza approfittare dei piaceri carnali che costei le avrebbe concesso, è emblematico a questo proposito.

Il libro si conclude con l’analisi dei romanzi di Gustave Flaubert ed Émile Zola, considerati come testimoni della linea che porta al romanzo contemporaneo, soprattutto per opere come le flaubertiane La tentazione di Sant’Antonio e Bouvard et Pécuchet: si riscontra da un lato il desiderio di inghiottire il mondo, dall’altro la nausea verso tutto ciò che circonda i protagonisti, in una paradossale dialettica tra bulimia e anoressia.

Un'ultima annotazione sullo stile del libro: talora la punteggiatura  e la sintassi riflettono l’andamento delle lezioni universitarie. Il che da un lato conferisce all’opera un tono più colloquiale, dall’altro però avrebbe forse meritato un più accurato lavoro di editing, per fugare l’impressione di trovarci talvolta di fronte a una scrittura quasi espressionista, più adatta a un’opera letteraria che a un saggio critico.

Pubblicato in: 
GN34 Anno III 10 gennaio 2011
Scheda
Autore: 
Renato Barilli
Titolo completo: 

La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj

Milano, Bompiani, 2010, pp. 504. Euro 23,00

Anno: 
2010
Voto: 
8.5