Memorie dal sottosuolo. La coscienza come malattia secondo Dostoevskij

Articolo di: 
Teo Orlando
Fëdor Dostoevskji

Alla Casa delle Culture di Roma è andata in scena dal 22 al 24 ottobre 2010 una pièce teatrale tratta dal romanzo Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskji. La riduzione e l’adattamento teatrali sono stati curati da Roberto De Robertis e Pietro Naglieri. A interpretare la pièce sono saliti sul palcoscenico Pietro Naglieri e Manuela Miscioscia.

''Un mascalzone, il più abietto, il più ridicolo, il più dappoco, il più stupido, il più invidioso di tutti i vermi della terra”: con queste parole Ivan, il protagonista di Memorie dal sottosuolo, presenta sé stesso. Pietro Naglieri lo impersona con accesa e accorata intensità, sottolineando anche con il dovuto vigore fisico i toni più drammatici.

Del resto, Memorie dal sottosuolo è una delle opere più profonde di Dostoevskij, che rappresenta compiutamente la disperazione dell’uomo che ha scoperto la menzogna insita in “tutto ciò che vi è di nobile e di sublime”. Come ha giustamente scritto il filosofo Luigi Pareyson, si tratta della più esistenzialistica delle opere di Dostoevskij, un “coraggioso smascheramento delle anime belle e un’audace smitizzazione delle grandi idee”, che funge quasi da prologo alla tragedia in cinque atti costituita dai grandi romanzi.

In questo breve romanzo la sua filosofia viene espressa in forma pura, attraverso un’analisi della coscienza solitaria e fantasticante che rivela l’homo absconditus: assistiamo così alla scoperta di una vera e propria psicologia del profondo, che viene descritto nei suoi più intimi recessi e nelle sue dinamiche più sottili e contraddittorie.

La pièce, come il romanzo, è divisa in due parti: nella prima il protagonista si intrattiene in una sorta di soliloquio, torbido e tormentato, arrivando a sostenere di essere “un malato, un malvagio, un uomo odioso”. In realtà, abbiamo a che fare con un giovane impiegato della piccola borghesia russa del XIX secolo, inconcludente e quasi abulico, a disagio con sé stesso e in rotta di collisione con la società: egli vive in una sorta di isolamento indotto, in una forma di alienazione spersonalizzante che lo rende incapace di stabilire relazioni profonde sia con i colleghi d’ufficio, sia con gli ex compagni di scuola.

Nella seconda parte, ambientata all’epoca della giovinezza del protagonista, veniamo introdotti nei rapporti che intrattiene con le altre persone nell’esistenza abituale. Dopo una cena in onore dell’ex compagno di scuola Zverkov, litigherà con gli altri presenti e concluderà la serata con un ridicolo e inconsistente tentativo di redimere una prostituta, la giovane Liza, alla quale fa credere di provare dei sentimenti di autentico affetto, salvo poi usarle violenza alla prima occasione e lasciarle con disprezzo del denaro. Costei (plasticamente intepretata da Manuela Miscioscia), lungi dall’essere rappresentata in modo realistico, diventa quasi il simbolo della tendenza sadomasochistica del protagonista e del fallimento dei suoi tentativi di vivere nel mondo con i propri simili.

“Non ero furfante, né eroe, né onesto. Vivere oltre i 40 anni sarebbe indecente e di cattivo gusto: è una cosa degna solo degli stupidi e dei poco onesti”: con queste parole Ivan comincia il processo di autodenigrazione, giustificando la sua decisione di prolungare il più possibile la sua esistenza. Del resto, in un'altra frase esprime la convinzione per cui "ogni coscienza è una malattia". Un uomo cosiffato è di coscienza "ipertrofica", al punto da sentirsi un topo e da sottrarsi al suo ultimo espediente, alla sua stessa astuzia. In un'altra scena esclama infatti: "voglio ora raccontarvi come mai io non sia riuscito nemmeno a diventare un insetto": è quasi l'anticipazione della metamorfosi kafkiana che però non riesce a tradursi, come vorrebbe, nel rifiuto delle pesanti incombenze del lavoro burocratico.

Ivan polemizza anche contro i valori occidentali, francesi, tedeschi e anche inglesi, del razionalismo e del positivismo, fondati sui processi deduttivi affidati al controllo della matematica. Le leggi della natura sono qualcosa di cui la volontà non si cura. Altrimenti non si potrebbe protestare contro la legge aritmetica per cui 2+2=4 e contro il fatto che l’uomo discenda dalla scimmia.

Pur non usando la stessa nozione di inconscio di Sigmund Freud, il sottosuolo a cui allude Dostoevskij nel suo romanzo, inteso come metafora del luogo dove si trova tutto ciò che la coscienza tenta invano di accantonare, richiama senz’altro le indagini freudiane. Del resto, lo stesso Freud si era occupato dello scrittore russo, e aveva acutamente rilevato che nella ricca personalità di Dostoevskij si possono distinguere quattro aspetti: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore.

Il lato morale di Dostoevskij, per Freud, presenta un difetto: se si considerasse che soltanto chi ha toccato il fondo estremo del peccato potrebbe raggiungere il grado più alto della moralità, allora sicuramente lo scrittore russo sarebbe il paradigma dell’uomo morale. Ma per il fondatore della psicoanalisi in questo modo si trascura una riflessione: quella per cui l’uomo autenticamente morale è colui che già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, senza cedervi. Invece, il tipo d'uomo raffigurato da Dostoevskij richiama alla memoria i barbari delle migrazioni etniche, i quali uccidono e poi fanno ammenda per l'uccisione. In ciò apparirebbe lo spirito russo, ben esemplificato da una figura come Ivan il Terribile.

In realtà, l’impiegato Ivan più che il paradigma di una moralità distorta è una sorta di antieroe, in ciò simile all’Oblomov di Goncarov o all’Ulrich de L’uomo senza qualità di Robert Musil. È un sorta di personaggio abietto verso cui però il pubblico tende a simpatizzare, benché dichiari subito di essere una persona malata e cattiva.

La sua consapevolezza deriva dalla sua sofferenza: “Vi giuro, signori, che l'esser troppo consapevoli è una malattia, un'autentica, assoluta malattia”. Come nel Nietzsche della seconda delle Considerazioni inattuali, l’eccesso di  consapevolezza e di memoria non può che generare inerzia, rendendoci incapaci di vivere e di agire, e di rapportarci agli altri: “Io sono solo, e loro invece sono tutti”.

Per molti critici il pensiero di Dostoevskij si pone in netta contrapposizione con l’illuminismo, nella misura in cui dubita delle verità della scienza e non ha fiducia nei poteri della ragione umana, che rappresenta solo una parte, e neppure quella decisiva, della personalità degli uomini. In analogia con Schopenhauer, anche per Dostoevskij la volontà umana (simile al Wille zu leben del filosofo tedesco, come ha rilevato Renato Barilli) collide spesso con la limpidezza del pensiero razionale, perché è agitata da forze oscure che non si dirigono verso ciò che è vantaggioso per gli individui e per l’intero genere umano. Ciò vale a livello sia individuale, sia metastorico: come già in Shakespeare, la vita umana e la storia sono prive di un significato finalistico. Sono solo “un racconto narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, che non significa niente” ("A tale/Told by an idiot, full of sound and fury,/Signifying nothing”; Macbeth: atto V, scena V, vv. 26-28).

In definitiva, il romanzo di Dostoevskij sembra piuttosto una sorta di saggio filosofico travestito: al narratore russo qui non interessa tanto costruire una sia pur esile storia, quanto piuttosto rappresentare il coacervo caotico delle passioni umane: dall’egoismo all’indecisione, dal desiderio di vendetta al senso di colpa, dalla vergogna all’ingratitudine. Il primato del dolore va oltre la visione pessimistica di autori come Leopardi o Schopenhauer: ad esso si associa la constatazione delle torbide delizie che lo accompagnano; la coscienza si riconcilia con sé stessa grazie allo spettacolo del male. Come ha osservato Sergio Givone, il male diventa una sorta di “astuzia della coscienza” che vuole sprofondarvi, per annichilirsi e disgregarsi in quanto è incapace di dominarlo. Ma alla fine ritorna in sé stessa rendendosi conto della sua infinità latente che consiste nell’incessante contemplazione del suo autodissolvimento.

Dostoevskij adotta la logica dell’«anima bella» di Schiller per rovesciarla dal proprio interno: l’esperienza dell’uomo del sottosuolo non è in nessun modo liberatoria, perché la sua turpitudine non ammette che le cose possano essere altrimenti e che ci si affidi all’utopia. Il suo bisogno di sofferenza si avvolge nella sua propria allucinazione e non offre appigli in cui il lettore del libro possa consolarsi. Il narratore, anzi, è lui stesso il lettore, è una sorta di essere cartaceo, un divoratore di libri che divora sé stesso. Più radicalmente, è come se non fosse mai esistito e non vivesse. Per usare le parole dello stesso Dostoevskij:
«Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Quanto prima vorremmo nascere da un’idea».

Pubblicato in: 
GN24 Anno II 28 ottobre 2010
Scheda
Autore: 
Fëdor Dostoevskji
Titolo completo: 

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
di Fëdor Dostoevskji

Riduzione e adattamento di Roberto De Robertis e Pietro Naglieri
con Pietro Naglieri e Manuela Miscioscia

scene Francesca Rossetti
costumi Ginevra Polverelli
grafica Emanuele Di Giacomo
luci Giuseppe Pesce
ufficio stampa Mariangela Pollonio

regia Roberto de Robertis
Produzione SCHEGGE DI COTONE, Roma

22/24 ottobre 2010
Casa delle Culture - via di San Crisogono 45 - ROMA

Anno: 
2010
Voto: 
9