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Umberto Eco e la Vertigine della lista. La summa teoretico-artistica dell'universo
Quando nelle librerie è apparso l’ultimo saggio di colui che è senza dubbio il massimo intellettuale italiano vivente, ossia Vertigine della lista di Umberto Eco, molti suoi fedeli lettori avranno provato qualche moto di sorpresa. Non tanto perché anche per la confezione esteriore il libro si presenta in modo inconsueto, con un sontuoso corredo di illustrazioni, dato che ne erano forniti anche due altri volumi recenti firmati dal grande semiologo, ossia la Storia della bellezza e la Storia della bruttezza; quanto piuttosto perché risulta problematico classificarlo specificando quale sia il suo ambito tematico, cosa che risulta un po’ paradossale per un libro che si occupa soprattutto di cataloghi e di inventari.
Non è infatti, nonostante le apparenze esteriori, un libro di storia dell’arte. Non è, a rigore, un libro di filosofia o di estetica. Non si presenta come un saggio di critica letteraria. Non può essere considerato uno studio semiologico, come altri che hanno reso famoso l’autore. E tuttavia presenta tratti che sono comuni a tutte queste tipologie saggistiche, oltre a riprodurre e rimeditare numerosi temi e argomenti di cui Eco ha nel corso dei decenni costellato i suoi saggi e i suoi romanzi. Sembra quasi, in effetti, che con questo libro egli abbia voluto realizzare un intento che aveva già dichiarato trent’anni fa nella prefazione a Il nome della rosa, quando osservò che aver scritto il suo primo romanzo fu “un gesto di innamoramento”, ma anche “un modo per liberar[si] da numerose e antiche ossessioni”.
Occasione immediata del saggio è stata la manifestazione Vertige de la liste, una serie di conferenze, esposizioni e proiezioni ideata dallo stesso Eco e tenutasi tra novembre e dicembre 2009 al Museo del Louvre di Parigi. Che Eco abbia deciso di scegliere il tema della lista (o del catalogo, dell’elenco e dell’enumerazione), lo spiega lui stesso in chiave autobiografica, ricordando come nei suoi romanzi abbondino le liste e come questa predilezione gli derivi da due passioni giovanili che hanno poi segnato potentemente il suo percorso filosofico e letterario: i testi medievali, dagli erbari alle litanie (su cui Eco ha scritto pagine memorabili in Arte e bellezza nell’estetica medievale, 1987), e molti testi di James Joyce, come il celebre elenco di oggetti contenuti nel cassetto di Leopold Bloom nell’Ulysses.
Da un punto di vista filosofico, Eco non dichiara esplicitamente il proprio “impegno ontologico”, come avrebbe detto Willard van Orman Quine, nel senso che lascia impregiudicata una questione: quella di stabilire se il catalogo corrisponda a un ordine oggettivo del mondo o se dipenda da una pura costruzione del soggetto. Probabilmente questo gli consente di non prendere una precisa posizione, come invece fa esplicitamente Maurizio Ferraris in un recente saggio dove pure si analizza in dettaglio il problema della catalogazione (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, 2009). Per Ferraris (similmente ad altri filosofi che recentemente si sono occupati di questi argomenti, come Achille Varzi), l’ontologia, ossia l’insieme di tutto ciò che esiste, non è determinata dall’epistemologia, ossia dall’insieme di tutte le nostre credenze giustificate. La sua è un’opzione manifestamente realista, basata cioè sul presupposto che il filosofo deve descrivere e classificare una realtà già esistente che non può certo fabbricare con la sua mente.
Ad Eco, invece, piuttosto che assumere una precisa posizione ontologica, interessa descrivere ed esemplificare gli effetti prodotti dalla natura potenzialmente infinita delle liste sulla nostra capacità rappresentativa. E, in effetti, una delle sue osservazioni preliminari è quella per cui la lista “suggerisce quasi fisicamente l’infinito, perché di fatto esso non finisce, non si conclude in forma”. Da ciò, da questa potenzialità infinita, deriva il suo carattere inquietante e la sua capacità di produrre la “vertigine”. Del resto, come ricordava Jorge Luis Borges, autore ben presente nel libro, “c'è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l'Etica; parlo dell'Infinito” (Altre inquisizioni).
Non a caso Eco si sofferma proprio sulle modalità di rappresentazione artistica in cui non si conoscono i confini del rappresentabile e se ne presuppone un numero infinito o astronomicamente grande; oppure su quelle descrizioni che non riescono a definire in modo essenziale i propri oggetti e che, quindi, per renderli comprensibili devono elencarne le proprietà accidentali, fin dai Greci ritenute infinite. Certo, si può distinguere un infinito estetico, come stato soggettivo ed emotivo di fronte a ciò che oltrepassa la nostra condizione finita, e un infinito attuale di oggetti di cui non potremo mai esaurire la numerazione. Ma, per Eco, è implicitamente possibile distinguere tra quegli artisti che chiudono in una forma definita la perfetta compiutezza di ciò che rappresentano e quelli che non esauriscono la totalità del rappresentabile in una forma chiusa in sé stessa.
Quest’ultima esigenza si riferisce soprattutto a quegli artisti che si servono della tecnica dell’elenco, sia a livello letterario, sia a livello figurativo (mentre, almeno in questo libro, Eco non sembra voler considerare anche la musica dove pure sarebbero presenti tecniche compositive che rimandano all’idea di serie infinita – se si eccettuano la celebre aria “Madamina, il catalogo è questo”, dal Don Giovanni di Mozart, Atto I, Scena 5°, o un riferimento al Bolero di Ravel, con il suo ritmo ossessivo che potrebbe continuare ad infinitum), benché l’autore sia consapevole della difficoltà di rappresentare visivamente l’idea di catalogo “aperto” (e qui ritorna l’antica idea dell’Opera aperta, con cui Eco cominciò nel 1962 la sua carriera di teorico dell’estetica).
Tra le tecniche pittoriche che Eco elenca, troviamo la “moltiplicazione delle figure”, “l’uso sapiente dello sfumato” o i personaggi che escono fuori dai limiti della cornice. Esemplificando, Eco cita (e riproduce nello splendido apparato iconografico) il Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, dove si sottintende che le meraviglie a cui accenna dovrebbero continuare oltre i limiti del quadro, cosa che accade anche per le nature morte (stilleven) olandesi, che ottengono “un effetto di abbondanza, di indicibilità della varietà suggerita”, per cui le cose vengono mostrate nel “pieno dispiegarsi delle loro qualità” (Remo Bodei). Anche se non va dimenticato che la natura morta spesso suggerisce la paradossale idea di una sorta di eternità stravolta ("the haggard features of eternity" secondo Peter Hammill).
Un altro tema affrontato magistralmente da Eco è quello del cosiddetto topos dell’indicibilità, ossia la necessità che un autore sente di rappresentare ciò che è così immensamente grande e sconosciuto da sfuggire alle possibilità espressive abituali. La soluzione individuata da molti autori, da Omero (il quale ipotizza una lista degli scomparsi che Ulisse incontra nell’Ade, nell'undicesimo libro dell'Odissea) a Dante, è quella di ricorrere a un elenco che funga da specimen dell’irrappresentabile, lasciando poi al lettore immaginare tutto il resto. In realtà Dante fa di più, perché non ricorre all’elenco, ma da un lato rappresenta l’estasi di fronte all’indicibile, anziché tentare di descrivere quest’ultimo, e dall’altro, nel canto XXVIII del Paradiso, tenta di sostituire una lista di oggetti con una sorta di modello matematico di essi basato sulla progressione geometrica: artificio linguistico di modernità impressionante, che ricorda certi passi di Robert Musil, dove si tenta di colmare la frattura tra “anima ed esattezza” (peraltro Dante aveva una piena consapevolezza dei problemi matematici del suo tempo, arrivando persino a ipotizzare, nel canto XIII del Paradiso, una sorta di triangolo non euclideo, come ha sostenuto brillantemente Imre Toth).
Del resto, elencare vuol dire numerare e descrivere accuratamente, e la letteratura sa benissimo quando e come soffermarsi sui particolari, da Shakespeare che elenca le sostanze maligne nelle streghe del Macbeth a Thomas Mann che nel Doktor Faustus descrive una raccolta funerea e museale di strumenti musicali. O si pensi a Poe che descrive una lunga teoria di individui diversi ne L’uomo della folla o ai luoghi elencati da Victor Hugo in Novantatré e da Joyce nel Finnegans Wake. Fino al luogo di tutti i luoghi compendiato da Borges nell’Aleph, da cui si potrebbe contemplare tutto l’universo, ma in realtà si riesce a percepire soltanto una lista incompiuta di epifanie deformi.
Bisogna tuttavia distinguere, afferma Eco, tra lista poetica e lista pratica: la seconda è puramente referenziale, finita e non alterabile (ad es. il catalogo delle donne compilato da Leporello nel Don Giovanni di Mozart), mentre la prima può essere anche incongrua, perché interessata ai significanti piuttosto che ai significati. Esempio assoluto è l’elenco degli animali nell’enciclopedia cinese Emporio celeste di conoscimenti benevoli, inventata da Borges nel breve saggio "L’idioma analitico di John Wilkins" e poi ripresa da Michel Foucault come exergue di Le parole e le cose.
E qui emerge il costante interesse di Eco per la semiotica e la filosofia del linguaggio: le definizioni che elencano una serie di proprietà sono quelle a enciclopedia, che descrivono entità mai compiute e mai irrigidite ad albero, come egli aveva già osservato e ribadito recentemente nel libro Dall’albero al labirinto (2007). Si tratta di strutture a rizoma, per usare la terminologia di Deleuze e Guattari, peraltro da Eco recepiti già nell’articolo L’Anti-Porfirio, apparso nell’antologia Il pensiero debole (1984).
E nel citare sé stesso, Eco esemplifica anche dalla sua produzione romanzesca, come l’elenco dei vagabondi da Il nome della rosa o la lista di tutti i minerali immaginabili in Baudolino. Curiosamente, nell’autocitarsi Eco non ricorda i passi del suo romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana, citato da Remo Bodei, nel saggio La vita delle cose (2009), in cui i semplici oggetti vengono quasi “transustanziati” in “cose” (nel senso pregnante del tedesco Sachen) dotate di una potenzialità infinita di significati.
Gli ultimi capitoli, più tecnici, rispecchiano altri interessi filosofici di Eco, da quello per l’arte combinatoria da Lullo a Leibniz, fino al paradosso di Russell, riletto alla luce di Borges, che avrebbe messo in discussione, con la sua lista incongrua, ogni ordine precostituito; infatti, nella lista degli animali ideata da Borges non dovrebbe essere inclusa anche la lista stessa (non essendo essa un animale; e dato che la lista si presenta di primo acchito come un “insieme normale”, non dovrebbe comprendere sé stesso come membro): e invece Borges la inserisce, senza però fare realmente della lista stessa un genuino insieme non normale, ossia che comprenda sé stesso come membro. Infatti, a livello denotativo, una lista di animali, ossia di oggetti, e non di altre liste, vale a dire di insiemi o concetti, non può includere come membro una lista, che equivarrebbe a un insieme o un concetto di secondo ordine in termini fregeani.
Questo iperparadosso scardina, almeno in apparenza, i confini della significatività, o più probabilmente ci mette di fronte ai limiti del linguaggio che le rappresentazioni artistiche e poetiche cercano continuamente di superare, violando quasi il precetto wittgensteiniano per cui “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (Tractatus Logico-philosophicus, 5.6).
E nel finale ritorna un’altra predilezione di Eco, La jolie rousse di Guillaume Apollinaire che aveva già citato nell’«antica» Opera aperta del 1962, ad esprimere la dialettica perenne tra legge e creatività:
Vous dont la bouche est faite á l'image de celle de Dieu
Bouche qui est l'ordre même
Soyez indulgents quand vous nous comparez
A ceux qui furent la perfection de l'ordre
Nous qui quêtons partout l'aventure
Voi la cui bocca è fatta all’immagine di quella di Dio
Bocca che è l’ordine in sé
Siate indulgenti nel confrontarci
A quelli che furono la perfezione dell’ordine
Noi che dovunque cerchiamo l’avventura