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Giorgio De Chirico. La naturale metafisica dell'invisibile
Il Palazzo delle Esposizioni di Roma ha dedicato, a cura di Achille Bonito Oliva, un’interessante mostra retrospettiva (9 aprile – 11 luglio 2010) a Giorgio de Chirico (Volos, Grecia, 1888-Roma, 1978), sia per suggellare il centenario della pittura metafisica (il cui atto “ufficiale” di nascita si colloca nel 1910 tra Firenze e Parigi, con il quadro L'enigma di un pomeriggio d'autunno), sia per concludere le celebrazioni per i trent’anni dalla morte del pittore, cominciate nel 2008.
La mostra che si è appena conclusa - La natura secondo De Chirico -, a cura di Achille Bonito Oliva, comprende 140 dipinti, provenienti da collezioni pubbliche e private, e documenta l’intera produzione dell’artista, dagli esordi simbolisti fino agli sviluppi neometafisici degli ultimi anni, ma imperniandosi su un tema specifico, ossia lo sguardo dell’artista sul mondo della Natura. Certo, si tratta di una natura trasfigurata secondo le coordinate della pittura metafisica, e anzi in molti dei quadri viene in realtà quasi trasformata nel suo contrario, come quando i manichini si sostituiscono agli esseri umani in carne e ossa.
Che la pittura metafisica sia uno dei movimenti artistici e culturali più significativi e fecondi del secolo scorso è ormai una verità incontrovertibile che pochi oserebbero mettere in discussione. De Chirico, padre della metafisica (dal vocabolo filosofico originariamente coniato con altro intento dall’editore di Aristotele Andronico di Rodi, e composto da μετά [metá], oltre, e φυσικά [physiká], ciò che è naturale), quando introdusse il termine voleva riferirsi ad un un’arte che si situasse al di sopra della storia e al di fuori del tempo, interrompendo o modificando i legami con la realtà empirica e ponendosi quasi come una realtà altra.
Tuttavia, pochi hanno sottolineato i legami di De Chirico con la filosofia, che pure emerge nettamente nel celebre autoritratto, il quale porta come divisa una scritta in latino: “Et quid amabo nisi quod rerum metaphysica est?” (E che cosa amerò, se non ciò che è la metafisica delle cose?): il motto a sua volta riprende un’epigrafe di Friedrich Nietzsche, dove al posto dell’espressione rerum metaphysica troviamo aenigma. Sostanzialmente, si proclama che la pittura è un’attività che non si limita a imitare e a ritrarre le cose, ma svela la loro essenza nascosta, celata dietro la faccia a noi accessibile attraverso i sensi.
È come se il segreto della natura ci fosse esibito sulla tela, ma la sua forma visibile fosse un mero simulacro che maschera un’essenza che solo a uno scandaglio più profondo ci si rivela nella sua interezza. Ed è proprio la cifra nietzscheana (e, in ultima analisi, schopenhaueriana) che ci deve condurre verso la concezione della metafisica di De Chirico, ben lontana sia da quella di Platone (per cui le arti figurative sono inadeguate da un punto di vista conoscitivo), sia da quella di Kant (per il quale la metafisica è scienza dei limiti della ragione umana). Per De Chirico invece, come per Schopenhauer e Nietzsche, l’arte (“severa e cerebrale, ascetica e lirica”, per usare le sue stesse parole) rappresenta il compito più alto e la vera attività metafisica della vita.
Del resto, con maggiore difficoltà della musica pura (che per Schopenhauer era una sorta di esercizio occulto della metafisica da parte dell’animo che non sa di stare filosofando), la pittura e le arti figurative possono anch'esse dischiuderci l’accesso alla realtà sottostante ai fenomeni. De Chirico ne è ben consapevole, come ha ben presente un paradosso insito nella sua pittura: quello per cui i quadri, pur chiusi nei limiti della loro superficie, offrono ciononostante l’unico accesso a ciò che la oltrepassa.
Ecco perché le opere della pittura metafisica somigliano a palcoscenici sui quali vengono inscenate sequenze simili al teatro dell’assurdo, con esiti ambigui e paradossali, derivanti, ad es., dal fatto che incontriamo spazi dall’architettura definita ma non abitabili, costellati da manichini, giocattoli, oggetti stilizzati, spesso combinati senza apparente criterio logico. Nei quadri di De Chirico spesso vengono anche raffigurati oggetti del mondo quotidiano, che riconosciamo facilmente, ma per così dire transcodificati: diventano presenze enigmatiche di un mondo sospeso e onirico, che ci rivela “la vita (segreta) delle cose”, per mutuare il titolo di un bel libro di Remo Bodei.
Anche i paesaggi urbani e le piazze assumono una struttura irreale, quasi immobilizzando il tempo (come poi accadrà nei quadri surrealisti di Dalì e di Magritte), con prospettive dilatate e ombre enormi e minacciose.
Le sette sezioni tematiche, e parzialmente cronologiche, in cui si articola la mostra sono disposte nelle gallerie ai lati della Rotonda centrale del Palazzo delle Esposizioni, che funge da perno degli spazi dedicati alle opere d'arte.
La prima sezione, dedicata alla Natura del mito, presenta una serie di archetipi universali sotto forma di figure mitologiche che trionfano sul disordine della natura, contrapposto al lógos e alla cultura (ad esempio in dipinti come Oreste ed Elettra, Composizione con testa di Giove, Cavalli con dioscuri in riva al mare, Piazza d'Italia con Arianna, Argonauti sulla spiaggia, Ulisse). Di particolare rilievo è il quadro Le Muse inquietanti (nel riquadro), dove le figure dominanti sono le statue di forma classica con teste allungate come quelle dei manichini. Compare anche la figura del regolo, che definisce la direzione delle ombre rispetto alla fonte luminosa: la tecnica qui orienta la natura. Del resto, queste Muse si muovono in una Ferrara trasfigurata sotto la luce del meriggio, intesa, nietzscheanamente, come la la calma della massima felicità preceduta dalla quiete spettrale della disperazione, il cui momento decisivo si traduce in una sorta di arresto del tempo.
La seconda sezione indaga la natura dell’Ombra, che fa da contrappunto alle architetture immaginarie. È come se l’architettura introdotta da De Chirico nei suoi quadri definisse un luogo puramente mentale e irreale di puro spazio geometrico, quale si trova in racconti di fantascienza come And He Built a Crooked House di Robert Heinlein, e in modo più astratto rispetto alle litografie di Escher. In quadri come Piazza d'Italia, Presente e passato, La matinée angoissante, The Seer, I piaceri del poeta, Il mattino delle Muse, De Chirico coglie due implicazioni inquietanti del panorama urbano: l’assenza e il mistero. Le sue piazze sono deserte, perché le ombre bidimensionali sono la negazione stessa della presenza umana.
Nella terza sezione, denominata “Natura da camera”, assistiamo ad uno strano cortocircuito tra naturale e artificiale, che vengono reciprocamente scambiati (come in Interno metafisico con paesaggio romantico): vengono così accostate le categorie disomogenee dell’universale e del contingente, dell’eternità e della storia, ad esempio affiancando elementi naturali incongrui in un contesto plasmato dalla civiltà, o inserendo lacerti della tecnologia entro scenari naturali e perfino mitici (alberi nella stanza e mobili nella vallata). Esemplare a questo proposito è Il ritorno di Ulisse: quasi una parodia del mito, dove in un surreale interno borghese è inserito un frammento di mare, nel quale un Ulisse improbabile, solitario e di figura sproporzionata rispetto agli oggetti dell’arredamento (tra cui un quadro dello stesso De Chirico), rema per ritornare a casa. La porta della stanza, aperta, suggerisce un altrove misterioso nel quale è ancora possibile l’avventura eroica.
Nella quarta sezione entra in scena l’anti-natura, ossia le strutture inanimate che simulano corpi umani: manichini e automi, che sembrano dei cyborg ante-litteram, oggetti dall’identità ibrida, intermedi tra il corpo umano e la macchina (e come dice il filosofo francese Gilles Deleuze, in fondo gli esseri umani sono macchine desideranti). Cosa che ben risalta in dipinti come Archeologi, Il contemplatore, Le maschere, Le muse in villeggiatura, Il condottiero, The duo.
Nella quinta sezione irrompe la natura delle cose, ossia ibridi assemblaggi tra il naturale e l’artificiale, che vanno oltre le strutture culturali della nostra civiltà, di cui pure sono permeate. Oltre che Armonia della solitudine, Visione metafisica di New York e Mistero e solitudine torinesi, è particolarmente degna di menzione Mélancolie hermétique, dove il volto della statua classica si incunea, con il suo sguardo ombreggiato, in uno spazio incerto, ma assediato da forme matematiche. Tra l’altro, ci sembra che abbia costituito una delle fonti principali d’ispirazione per i Collages métaphysiques (composizioni iconografiche che creano continui circuiti metafisici tra le immagini dei filosofi e i concetti che li caratterizzano) di cui si dilettava il grande filosofo e storico della matematica Imre Toth, recentemente scomparso.
Nella sesta sezione ci troviamo di fronte alla Natura aperta con i suoi elementi primordiali: le radici (ῥιζώματα, rhizómata) empedoclee, aria, fuoco, terra e acqua, compongono la struttura dell’universo secondo le intenzioni dell’artista, come si nota soprattutto in Bagni misteriosi o The poetical dreamer.
Nell’ultima sezione, Natura viva, abbiamo a che fare con il capovolgimento del tema della natura mortα: l’arte “vivifica” – in senso letterale – la natura. Più che di natura morta sarebbe più opportuno parlare di “vita silente”, grazie all’arte che con la sua forza creativa mette in rapporto l’interna dinamica degi oggetti con la reale irrealtà dei “paesaggi metafisici”. Del resto, anche nelle nature morte della pittura olandese del Seicento (chiamata stilleven, ossia “vita immobile”, termine poi trasposto nell’inglese still life e nel tedesco Stilleben), le cose dipinte nascondono valori simbolici ben codificati, congiungendo “il visibile rappresentato all’invisibile assente” (Bodei).
I quadri presenti in questa sezione (come Natura morta con testa scultorea, Ego quoque in Arcadia vixi, Vita silente con marina) fissano gli oggetti apparentemente caduchi in una durevolezza e in un persistere che li rende virtualmente infiniti per lo sguardo di ogni possibile fruitore: essi diventano come gli Immortali di Borges, evocati non a caso nel disco Still Life dei Van Der Graaf Generator. E come ci ricorda lo scrittore argentino, “la vita è troppo povera per non essere immortale”. Anche perché, come Remo Bodei ancora sottolinea, nelle “nature morte” le cose diventano "miniature di eternità", aprendo un varco nel tempo verso l’assoluto che viene sfiorato nell’arco di tangenza tra divenire ed esistenza eterna.