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De Chirico. La Metafisica della Classicità
Due archeologi neri, con sullo stomaco le colonne ed interi templi romani che pesano e fanno ricadere a piombo le vesti. Forse un uomo ed una donna, l’uno abbraccia l’altra, leggermente voltata verso l’ipotetico lui senza volto, come se il non senso di una vita potesse naufragare in quello sguardo.
Giorgio De Chirico nel 1968 si presenta così, in un bronzeo dileguarsi delle forme in accessi di spirito, come se la Metafisica divenisse sostanza ed il prima ed il dopo crollasse in un’assenza temporale che avvolge il Pianto d’amore di Andromaca sulla spalla di Ettore (1974, da Venere e Marte di Canova). Ed allora ci si chiede come si possa mai non rinvenire quella stessa dolcezza di pennello nella Fanciulla dormiente tratta da Watteau (1947), e nemmeno a dire che ci sia un vero tempo storico affisso all’uno oppure all’altro ciclo, come ricordano i primi Archeologi del 1927.
Tra Metafisica e Neometafisica, tra la Testa di Minerva con pesca e grappolo d’uva del 1947 da Chardin, appartenente alla sezione Mitologia e Archeologia e Le muse inquietanti del 1925, non v’è forse un fil rouge che le accorpa nella stessa ricerca, che ne accomuna gli stupori delle statue ai paradossi dei ritorni, come i due Ritorno al castello (entrambi del 1969 da Böcklin), l’uno con la luna crescente e l’altro con la luna calante?
Sempre uno stesso quadro è presente al Maestro, L’enigma di un pomeriggio d’autunno, dipinto nel 1910 dopo un soggiorno a Firenze in cui s’è aggirato intorno a Santa Croce, investito dalla malinconia della sua stagione preferita, in una città gioiello nel tempo, quasi del tutto intatta.
Ed allora le critiche di Breton per il ritorno di De Chirico agli antichi pittori sfumano sullo sfondo, rivelandosi per quello che sono: un rigido dogmatismo che intendeva incapsulare gli artisti come mummie dentro il tempo del non divenire. Quel non ritorno che negava la volontà tramandata da uno dei pulsori dell’originario greco pittore, il Nietzsche dello Zarathustra, del doppio si alla vita che recuperando l’antico lo ammanta di nuova e fulgida grazia.
Una scorsa alle gotiche pitture riprese da Rubens non fanno che asserire una rinnovata speme dionisiaca, come nella Ballata mitologica (1949, da La danza di Maria Dé Medici), mentre La gravida da Raffaello Sanzio (1920) si confonde con l’originale.
Ci si inoltra subito nella foresta per incontrare i cavalli impavidi con la sella rossa su manto bianco come il Cavallo bianco nel bosco (Arione, del 1948) sul quale si giunge finalmente al riposo, tra le mura di cinta delle monumentali Ville Medici e Falconieri (1945 e 1946). Ed è lì che si ammira dall’alto del balcone esterno una scena con uccelli in volo disordinato, il Capriccio veneziano (unica opera proveniente da una collezione privata), ripresa dal Veronese.
Il correlativo delle muse e delle statue di De Chirico è il pensiero, la riflessione come promessa d’aldilà, ed è questo che lo lega all’altro grande trascendentale tedesco della volontà e della rappresentazione, Schopenhauer. L’uno e l’altro tolgono il velo alle loro statue, ben sapendo entrambi che ciò che vedranno non sarà che un’altra immagine, un altro, ingarbugliato enigma.