The Road di Cormac McCarthy. Alternative post-apocalittiche. Seconda parte

Articolo di: 
Teo Orlando
La strada

Gli alternate endings, ossia i finali alternativi di una narrazione, fanno parte della letteratura fantascientifica e soprattutto della filmografia (ad esempio per Blade Runner di Ridley Scott, tratto da Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip Dick era stato concepito un finale diverso da quello universalmente noto).

Ma si può dire che questa idea, a suo tempo adombrata dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz negli Essais de Théodicée, con la celebre favola del palazzo dei destini (ma presente anche in alcuni romanzi moderni, come The Well-Beloved di Thomas Hardy e The French Lieutenant's Woman di John Fowles), trovi un supporto teorico molto incisivo nel racconto di Jorge Luis Borges Il giardino dei sentieri che si biforcano.

A differenza delle opere narrative tradizionali, dove si decide per una possibilità alternativa e si eliminano le altre, Borges pensa che si possano creare “diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano”. Come ha puntualizzato Umberto Eco in quel raffinatissimo saggio che è Lector in fabula, il lettore può lui stesso compiere una sorta di “passeggiata inferenziale”, trasformando un racconto apparentemente chiuso in quella che si può chiamare una fabula aperta.

Il finale scelto da McCarthy potremmo definirlo ottimista à la Leibniz. Come nel migliore dei mondi possibili del filosofo tedesco, il male è finalizzato a garantire una maggiore quantità di bene. La famiglia ampliata (composta da altri due figli e un cane, apparentemente "buona" e diversa dagli altri uomini antropofagi) con il nuovo acquisto fonderà una comunità con altre famiglie simili, cercando di far rinascere, ove possibile, l'agricoltura. Nei citati Essais de Théodicée, Leibniz sostiene di aver seguito l’opinione di Sant’Agostino, “che ha detto cento volte che Dio ha permesso il male per trarne il bene, ossia un bene di gran lunga maggiore”, e quella di San Tommaso, per cui “permettere il male tende al bene dell’universo".

Ma potrebbero profilarsi altri finali, se vogliamo cooperare interpretativamente con l’autore, diventando quasi dei “lettori modello”.

Il secondo possibile finale muove dal presupposto che dopo un po' di tempo gli altri membri della famiglia decidano di uccidere e di mangiare il bambino, portandoselo intanto dietro a mo’ di frigorifero ambulante. Da un punto di vista razionale, questa amara soluzione non è del tutto inverosimile. Si noti che nella famigliola è presente un cane, che di solito mangia carne (e la cui funzione potrebbe essere anche quella di andare “a caccia” di altri esseri viventi, umani compresi). Né si deve sottovalutare il fabbisogno proteico soprattutto della donna, che dopo due parti, avvenuti presumibilmente dopo la catastrofe, avrà bisogno di alimentarsi congruamente.

Contro questa ipotesi milita il fatto che il capofamiglia, “reduce di antichi scontri” (A veteran of old skirmishes), non sequestra al bambino la pistola che ha ereditato dal padre (tra l’altro la pistola ha un solo colpo residuo dei due originari, perché uno di essi è stato usato contro un cannibale, mentre contro un altro aggressore è stata usata un'altra pistola a razzi trovata nel relitto di una nave), ma potrebbe essere uno stratagemma per accattivarsi la sua benevolenza. In ogni caso, questo finale potrebbe essere definito quello di un pessimismo cosmico, simile a quello di Giacomo Leopardi. Come scrive il poeta di Recanati nello Zibaldone: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male”.

Un terzo possibile finale si basa sul fatto che, pur ammettendo che la famiglia che adotta il bambino sia composta da esseri umani con senso morale, quanto potrà questa famiglia sopravvivere in un contesto dove il 99% dell'umanità si è ridotta all'antropofagia? Certo, potremmo concedere che quasi nessuno è un antropofago naturaliter. Sono diventati tutti o quasi cannibali per necessità, perché, anche se ogni tanto emergono rifugi sotterranei con riserve di cibo, esse non bastano per tutti e al massimo si possono mangiare alcuni insetti, dato che almeno in apparenza si sono estinti tutti gli altri animali e pure le piante.

Pertanto, il rischio più verosimile è che tutti i componenti della famiglia verranno divorati da un'orda di cannibali. In realtà, da questo punto di vista la seconda soluzione sarebbe compatibile con la terza, che verrebbe semplicemente affrettata: ossia, qualora divorino uno dei loro componenti, prima o poi si assimileranno alle tribù di cannibali o verranno divorati da essi. Potremmo chiamare questa soluzione “pessimista collettivista”. Il referente filosofico più prossimo è probabilmente Thomas Hobbes, il quale scriveva: “avendo ciascuno il diritto di conservarsi, ciascuno deve anche avere il diritto di ricorrere a tutti i mezzi, e compiere tutte le azioni, senza cui non può conservarsi (De cive, I.8).

Si può infine aggiungere una quarta possibile soluzione. Ammettiamo che la famiglia, hegelianamente, si unisca ad altre famiglie e formi un'elementare società civile (qui cerchiamo di sviluppare ulteriormente la stessa soluzione di McCarthy). E che, come Lewis Morgan e Friedrich Engels ci hanno insegnato (cfr. del secondo L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato), da qui possano dirigersi verso il recupero del concetto di proprietà privata. E che riescano a sviluppare di nuovo delle tecnologie, grazie alle quali da un lato possano coltivare la terra e dall'altro a organizzarsi anche militarmente. A quel punto prima o poi incontreranno le orde di cannibali.

In tal caso, non sarà possibile nessuna mediazione, of course: sarà di nuovo guerra (come forse è stata una guerra nucleare quella che ha portato alla catastrofe). Ammettiamo ora che vincano i "buoni": non si potrà però verificare una vittoria dei buoni come quella degli alleati nella Seconda guerra mondiale (quando l’esercito tedesco venne certo sconfitto pesantemente, ma non vennero però sterminati tutti i suoi componenti; anzi, dopo la guerra arrivarono molti aiuti per la ricostruzione con il piano Marshall, ecc.). Qui invece il motto non può che essere: “no prisoners, numquam captivi”.

Vediamo perché. In effetti, se vincessero i cannibali, tutto proseguirebbe cupamente: i cannibali continuerebbero la loro orrida pratica antropofagica e l'umanità regredirebbe senza fine.

Se vincessero invece i "buoni", essi non potrebbero comunque far altro che sterminare i cannibali. Perché non c'è modo né di costruire prigioni, né di assimilarli e integrarli. Quindi, saranno “buoni” per modo di dire, anzi lo saranno solo nella misura in cui si limiteranno a sterminare i nemici senza mangiarli.

Ma in realtà, i cannibali, se vincessero, potrebbero risparmiare molti dei “buoni” invitandoli a unirsi a loro nelle pratiche antropofagiche. Anzi, potrebbe perfino accadere che i cannibali, se vincessero, divorino tutte le donne e i bambini, ma forse risparmino qualche maschio adulto cercando di trasformarlo in un cannibale. Invece i "buoni" sarebbero costretti al genocidio, come conseguenza inevitabile.

Non possono rischiare infatti di assimilare i cannibali in una società precaria e ancora in fieri: sarebbero troppo pericolosi.
È forse quello che è accaduto quando l'uomo di Neanderthal si è estinto a vantaggio dell'homo sapiens. Ipotesi formulata dal grande scrittore inglese William Golding, nel romanzo The Inheritors (tradotto in italiano come Uomini nudi), in cui gli homines sapientes rapiscono un neonato ed una ragazza appartenenti alla specie neanderthaliana non senza aver prima sterminato la comunità a cui appartenevano; la differenza sta nel fatto che i neanderthaliani non erano pericolosi, anzi erano esseri pacifici che comunicavano telepaticamente vivendo in un eterno presente. Ma la rappresentazione che ne avevano i "moderni" uomini di Cro-Magnon proiettava su di loro gli stereotipi protorazzisti per cui il “diverso” diventa automaticamente il demonio da annientare.

Questa sorta di quarta soluzione somiglia a un pessimismo antropologico a tinte nichiliste che ricorda alcune teorie del filosofo tedesco Carl Schmitt. Non si può parlare di “buoni” o di “cattivi”, tanto meno in una condizione così degradata come quella di The Road. Si può soltanto interpretare il contrasto tra i vari gruppi umani in base alla dicotomia amico/nemico, dove il nemico è “semplicemente un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente e che si contrappone a un altro raggruppamento dello stesso genere” (Le categorie del politico).

Un ulteriore esercizio di cooperazione intertestuale alternativa potrebbe consistere nel ricercare brani poetici che si adattino alla situazione descritta in The Road. O nell’ipotizzare una colonna sonora alternativa per il film che possa in qualche modo adattarsi anche alle situazioni descritte nel romanzo.

Nel primo caso, oltre ai massimi vertici della poesia del Novecento (ossia The Waste Land, Four Quartets e The Hollow Men di Thomas S. Eliot e le Duineser Elegien di Rainer M. Rilke), si potrebbe citare la splendida poesia The Fall of Rome di Wystan Hugh Auden. O alcuni poemetti di David Gascoyne, non a caso ascritto al cosiddetto Apocalyptic Movement: The Fortress e Spring MCMXL.

Nel secondo caso, senza togliere nulla all’eccellente colonna sonora di Cave & Ellis, sarebbe abbastanza agevole compilare una selezione di brani musicali che ben si adattano al clima post-apocalittico del film e del romanzo. Nella musica classica, penserei al Quatuor pour la Fin du Temps di Olivier Messiaen.

Nel rock potremmo menzionare numerosi brani spesso dotati di eccellenti liriche, in qualche caso veri testi poetici, che descrivono situazioni post-apocalittiche: Last Year's Man di Leonard Cohen con i suoi riferimenti biblici; After the Flood dei Van Der Graaf Generator con le atmosfere visionarie di Peter Hammill, che non manca di insistere su questi temi nei suoi brani solisti Forsaken Gardens e Modern; perfetto anche Peter Gabriel in Here Comes the Flood, scandita dalle chitarre di Robert Fripp; dai maestri indiscussi del folk apocalittico, i Current 93, si citeranno solo Twilight, Twilight, Nihil, Nihil, To Blackened Earth, All The Stars Are Dead Now, con le liriche inquietanti di David Tibet.

Né potranno mancare i Doors con The End (usata anche dal regista Francis Ford Coppola in Apocalypse Now), David Bowie con Five Years e i Godspeed You! Black Emperor con The Dead Flag Blues. Ma forse un messaggio di speranza ci proviene ancora dai Pink Floyd di quell’immenso disco che è Ummagumma, dove in The Narrow Way David Gilmour canta i seguenti versi: "Flowing in the path/as it leads toward the darkness in the north/weary stranger's faces show their sympathy/they've seen that home before" (Percorrendo il sentiero/che conduce verso l’oscurità del nord,/facce stanche di forestieri mostrano la loro comprensione/Essi hanno visto quella casa già prima).

Pubblicato in: 
GN43 Anno III 14 marzo 2011
Scheda
Autore: 
Cormac McCarthy
Titolo completo: 

La strada, Torino, Einaudi, 2007, ristampa 2010, traduzione italiana di Martina Testa, pp. 218. € 12,00.

Titolo originale: Cormac McCarthy, The Road, New York, Vintage international, 2006.

Anno: 
2010
Voto: 
10