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Peter Hammill alla Sala Sinopoli. L'entropica meditazione sull'interiorità
Il 7 dicembre 2009, nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della musica di Roma, ha avuto luogo il secondo concerto della tournée italiana di Peter Hammill, l’artista che, insieme a Robert Fripp, ha forse più di tutti mostrato come sia possibile oltrepassare e poi riconquistare i limiti del progressive.
Alle 21,05, mentre nella Sala cala il buio più assoluto, la figura di Hammill compare vestita di bianco, come se provenisse da un universo arcano e diafanamente ultramondano. La sua interiorità viene presentata al pubblico attraverso voce, piano e chitarra: il resto non conta.
Per dirla con le parole del poeta che forse gli è più affine, Wystan Hugh Auden, nel commento in versi alla raccolta di sonetti In Time of War: Self was the one city,/The cell where each must find his comfort and his pain,/The body nothing but a useful favourite machine (L’io era l’unica città,/La cella dove ciascuno deve trovare il suo conforto e il suo dolore,/Il corpo non era altro che un’utile macchina preferita). Il concerto si svolge piuttosto come un Kammerspiel, quasi un recitativo, in cui poesie più che canzoni vengono interpretate come Lieder moderni con pianoforte e chitarra.
L’incipit è la struggente ed insinuante The Siren Song, originariamente suonata dal suo gruppo, i Van Der Graaf Generator, con un’essenziale parte strumentale per violino, qui affidata solo alle note cristalline del pianoforte e alla voce versatilissima e lanciata in acrobatici falsetti. La melodia si dipana in modo così ammaliante e seducente che viene quasi spontaneo pensare che Ulisse dovette aver ascoltato qualcosa di simile quando si fece legare all’albero maestro per non cadere vittima delle sirene pur continuando a sentire il loro canto. Episodio cui alludono sicuramente i versi hammilliani: though I’m lashed to the mast/still it hammers round my brain (benché io sia avvinto all’albero maestro/mi martella ancora nel cervello).
Segue Don’t Tell Me, nella sua apparente semplicità intrisa di un dolore lancinante. È poi il turno di Shell, da cui emerge una sconsolata metafisica: la nostra esistenza è qualcosa di illogico, forse viviamo in un sogno à la Borges, illudendoci di poter scrivere le nostre vite (in a Borges dream we move toward/the writing of lives), o in un disegno di Escher, dove sono tracciate assurdamente le nostre righe. Alla fine la vita si rivela una biblioteca di memorie non scritte da noi, ma da qualche ignoto ghost-writer.
Dopo il quarto pezzo, la scabra e cupa Nothing Comes, Hammill propone la prima e unica song dal nuovo album Thin Air, Undone: si avverte una certa malinconica solennità nelle note e nella scansione dei versi, che alludono al sentimento di insoddisfazione e di incompiutezza esistenziale quando si devono trarre dei bilanci: My history doesn’t make much sense,/no corner has been turned (la mia storia non ha molto senso,/non ho fatto nessuna svolta).
Poi saluta il pubblico, nel suo italiano british flavoured, impugna la chitarra e, dopo qualche prova di accordatura, comincia quasi a recitare uno dei suoi più profondi poemi accompagnandosi con lo strumento quasi solo per sottolinearne i momenti più drammatici: si tratta di The Comet, the Course, the Tail, una riflessione sul libero arbitrio e sull’impossibilità di predeterminare le nostre azioni future, con gli inquietanti versi finali: How can I tell that the road signed to hell/doesn't lead up to heaven?/What can I say when, in some obscure way,/I am my own direction? (Come posso dire che la strada segnata verso l’inferno non conduca in alto al paradiso? Che cosa posso dire quando in una qualche maniera oscura io sono la mia propria direzione?).
L’apice drammatico di questi ultimi versi si stempera nella successiva Shingle Song, appartenente al periodo proto-punk di Hammill (all’epoca omaggiato perfino da Johnny Rotten!), ma qui suonata in maniera molto acustica, quasi unplugged, a declinare la sofferenza per un amore perduto. Si ritorna quindi su lidi più cosmici con Modern, da uno degli album più “abissali” della sua carriera: città mitologiche come Atlantide si alternano a luoghi biblici, come Gerico o Babilonia, con un simbolismo che ricorda a tratti i Current 93 di David Tibet. Ma ben presto si arriva alla tesi per cui le città antiche alludono alla disperazione della modernità, in cui “the life is false, it's killing me”.
La delicatissima Ophelia, eroina shakespeariana dall’Hamlet, è il tema della successiva ballad, che la trasfigura mentre va alla deriva nel fiume (down the river Ophelia goes). Patient lo vede ancora alla chitarra, ad esprimere un pessimismo cosmico che potremmo definire leopardiano: but Nature's not your mother now,/just your suckling nurse (la Natura non è tua madre ora,/ma soltanto la tua nutrice). I lugubri rintocchi del pianoforte, suonato quasi alla maniera di Diamanda Galás, introducono inconfondibilmente The Lie (Bernini’s Saint Theresa), forse la sua riflessione più sconsolata sulla religione e la devozione: prendendo spunto dalla celebre statua, così cara anche allo psicoanalista Jacques Lacan, Hammill non esita a definire menzognere le illusioni religiose e a ritenere meri nomi termini come “grazia” o “castità” (Grace is a name, /like Chastity, like Lucifer, like mine).
Critica alla religione attenuatasi nei lavori più recenti, intrisi di una sofferta spiritualità, che si riversa nella successiva dolentissima Meanwhile my Mother, dedicata al declino psicofisico di sua madre, precipitata nell’abisso del morbo di Alzheimer (lost in a world of her own, perduta nel suo mondo a parte). Da Gone Ahead, tratta da un album dedicato a una wittgensteiniana critica del linguaggio e all’incomunicabilità, si passa a A Better Time, che Hammill definisce una canzone “a metà positiva”, e dove il principio di causalità (all we prize and protect [is] only cause and effect, tutto ciò cui diamo un prezzo e proteggiamo (è) soltanto causa ed effetto) viene collocato in un orizzonte dove sembra esserci posto per una finalità, forse trascendente. Eteree risuonano poi le note del pianoforte a scandire A Way Out: fuori di sesto (out of joint, come il tempo in Shakespeare e come il libro di Philip Dick Time out of joint, Tempo fuor di sesto, 1959) appare ogni illusione umana; non c’è nulla a cui aggrapparsi, né un paracadute a frenare il nostro precipitare. Perché, come dice l’ultima canzone, siamo ancora estranei (Stranger Still), in un mondo dominato dall’entropia.
C’è ancora tempo per un bis, richiesto a gran voce: è la vandergraffiana Still Life, dove l’ispirazione borgesiana si traduce in una meditazione sull’eterno e l’immortalità. Gli immortali hanno sostituito ogni sentimento con il mero calcolo razionale, ma così facendo hanno preso in sposa una natura morta, dalle fattezze stravolte e prive di denti: the toothless, haggard features of Eternity. Il pubblico, concentratissimo, può a questo punto sentirsi appagato, pur sapendo che nei successivi concerti Hammill cambierà quasi tutta la scaletta, proponendo altri e intensi brani dal suo immenso repertorio.