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Van Der Graaf Generator. La metafisica del progressive
Nell’incantevole piazza Mazzini di Guastalla (Reggio Emilia), esempio di Rinascimento “rustico”, il 29 luglio si sono accesi i riflettori su uno degli eventi più attesi dell’estate rock del 2009: sono tornati ad esibirsi gli storici Van Der Graaf Generator, una delle più celebri formazioni del progressive degli anni ’70, recentemente ricostituitisi in una reunion niente affatto autocelebrativa.
Già verso le 20,00 l’attesa si stava facendo spasmodica, tra le due migliaia di persone convenute nella piazza. Alle 21,30 in punto, introdotto da Emilio Maestri, medico emiliano e infaticabile animatore del gruppo di studio sulla band progressive (con la frase “questa notte è la nostra notte”), sale sul palco, magrissimo e negligentemente azzimato, il loro carismatico vocalist, Peter Hammill. Nel suo italiano molto british, annuncia che si comincerà con un pezzo nuovo. Infatti è Interference Patterns, dall’ultimo disco Trisector, che apre il concerto. Un freddo e preciso dialogo dissonante tra l’organo e il piano elettrico mostra quanto siano capaci di usare anche le tastiere in chiave jazz, mentre il testo spiega il rapporto tra il destino dell'uomo e la fisica quantistica.
La formazione a tre affronta poi Every Bloody Emperor: pur senza i leggendari sassofoni di David Jackson (uscito recentemente dal gruppo), il brano riesce lo stesso a decollare, grazie al sapiente lavoro alle tastiere di Hugh Banton, che usa i pedali dell’organo anche per sostituire il basso. Il finale con alcuni miniassoli di tastiere risulta molto dark, con la musica che accompagna sinistra i terribili versi conclusivi “We’re only serfs and slaves as the empire decays” (Noi siamo solo servi e schiavi mentre l’impero decade).
In Scorched Earth appare precisa e implacabile la batteria di Guy Evans, quasi un generatore di energia poliritmica; anche qui le tastiere surrogano egregiamente il ruolo della chitarra e dei fiati, quasi fossero “metal keyboards”. Hammill, la cui voce, potente e stentorea, non sembra risentire dell’età, di nuovo in italiano disannuncia i brani, poi imbraccia la chitarra e parte con il pezzo successivo.
Si tratta di Lemmings, potente allegoria quasi “kantiana” contro il suicidio e in favore della vita, che per quanto disperata va comunque vissuta. Il canto è potente e quasi lugubre, con la batteria che sembra adeguarsi, ritmando una sorta di marcia funebre e concludendo con pochi tocchi sommessi, scanditi anche da chitarra e tastiere.
Seguono due “nuovi” brani, dal disco Trisector. Il primo è Lifetime. Lo stile ricorda quasi lo Hammill solista: infatti la voce, benché sommessa, domina sull’esile tappeto strumentale di tastiere, batteria e chitarra appena pizzicata. Alla fine viene accennato un assolo di chitarra memore dello stile di David Gilmour dei Pink Floyd o di Eric Clapton, ma con molto senso del limite si desiste da un inopportuno confronto.
Il secondo è All that before, un apologo sullo svanire della memoria (tema presente anche in due brani dello Hammill solista, Amnesiac e Meanwhile my Mother, dedicato alla malattia della madre), molto ritmato con la chitarra che viene cambiata. Qui l’assolo finale è protratto, ma è da chitarra ritmica e segue subito la strofa finale.
Si ricomincia con un vecchio brano, Meurglys III. The Songwriter’s Guild: dedicato alla chitarra di Hammill (il nome è tratto dalla Chanson de Roland dove designava la spada del paladino traditore Gano di Magonza), comincia introdotto dalle tastiere, prosegue con un lungo assolo di chitarra e poi con un climax continua si toccano vertici da vera suite prog. Dopo le ultime parole assume un andamento che ricorda Funky Dug da Atom Heart Mother dei Pink Floyd, per poi concludersi con un’esplosione di batteria.
Quando Hammill seduto al piano, con la voce che si eleva quasi spettrale, sussurra i primi versi di Childlike faith in childhood’s end («Existence is a stage on which we pass,/a sleepwalk trick for mind and heart». L’esistenza è un palcoscenico sul quale passiamo,/un trucco sonnambulo per la mente e il cuore), il pubblico sembra concentrarsi all’unisono in una tensione assoluta. Mentre il testo racconta di episodi cosmici (il titolo è mutuato dal romanzo di fantascienza Childhood’s End di Arthur C. Clarke), l’organo di Banton scandisce solenne i passaggi metafisici. Forse si tratta del testo più intenso e profondo di tutto il progressive, con riferimenti religiosi ignoti ad altre band (se si eccettuano le vastissime incursioni gnostico-apocalittiche dei Current 93), e che ricordano i testi di Thomas S. Eliot o di W. H. Auden (oltre che di Shakespeare). Il verso finale («In the death of mere Humans Life shall start!», Nella morte dei semplici Umani la Vita comincerà!) allude a una visione spinoziana, scandita dal tema in mi maggiore, nella convinzione che la volontà di ognuno sarà parte di una mente universale che trascenderà il tempo e la mortalità individuale.
Un’incredibile standing ovation accoglie la fine del brano, e subito dopo, con uno dei riff più celebri e incalzanti della storia del progressive, reso famoso dal doppio sassofono di Jackson, comincia The Sleepwalkers. Ma qui bastano batteria (con piatti delicati e potenti insieme) e tastiere, mentre il testo, “supergotico”, dipinge danzatori della notte che avanzano, pieni di implacabile energia verso l’oscurità, con gli occhi non offuscati dalla luna. Hammill stesso si siede alle tastiere e duetta con Banton. E poi conclude ispirato con voce finale quasi da coro.
È il turno di ancora un ultimo pezzo recente, Over the Hill, un’altra minisuite con gli strumenti suonati con una progressione crescente e le ultime parole scandite con accorata intensità.
L’ultimo pezzo annunciato è Man-Erg, dal leggendario disco Pawn Hearts. Il gruppo lo esegue in uno stato di vera grazia, con la voce di Hammill che tende verso il cielo, la batteria suonata come le tastiere e le tastiere suonate come se fossero la batteria. Nel testo viene descritta un’architettura quasi-freudiana dell’Io, composto da varie stanze, ciascuna delle quali è abitata da un’entità che poi l’Ego contempla dall’esterno: prima un assassino (A killer lives inside me), poi gli angeli e infine l’Io stesso (l’Es, il Super-Io e l’Io).
Ma c’è ancora il tempo per un bis, con Hammill che dice in italiano: “solamente un grazie di cuore per la serata”.
E quando intona Still life, ispirata al racconto L’immortale tratto da El Aleph di Jorge Luis Borges, il pubblico si ammutolisce e cala un silenzio glaciale e rigidissimo su tutta la piazza, quasi che il tempo si arrestasse nel momento in cui passato e futuro sono uniti, per dirla con l’Eliot dei Four Quartets ("where past and future are gathered"). L’interpretazione è più “borgesiana" che mai: se il tempo della vita umana fosse infinito, esso perderebbe ogni senso, e la tanto desiderata eternità annullerebbe ogni anelito verso il futuro; rimarrebbero solo la generica staticità (inertia) e l’impossibilità di agire, la noia (boredom), e all’immortalità biologica si accompagnerebbe, inquietante, la morte della volontà. Con una purezza che ci lascerebbe sterili ("and though purity is maintained it leaves us sterile"). Nell’ultimo verso (Hers forever in still life) la voce di Hammill sembra librarsi in una dimensione di sospesa immobilità metafisica.
Degna conclusione per un concerto dove un torrente di suoni e di parole ha inondato, con lampi corruschi, la piazza della cittadina emiliana, all’ombra della statua del duca Ferrante Gonzaga che ascoltava anche lui sbalordito una musica forse non del tutto remota per le sue orecchie rinascimentali.