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Umberto D. Flaik e l'economia della solitudine. Seconda Parte
De Sica e Zavattini realizzano un notevole affresco d’epoca e soprattutto raccontano la tristezza di un uomo che teme di finire i suoi giorni in un dormitorio pubblico. La pellicola vive uno dei momenti più intensi quando Umberto esce dall’ospedale e vede la sua camera semidistrutta, perché la padrona vuole farne una stanza unica dove vivere con il nuovo compagno.
Non solo. La padrona ha fatto uscire di casa il cane che si è perso. Umberto vaga disperato per le strade di Roma in un crescendo drammatico, raggiunge il canile e infine ritrova il suo Flaik che abbraccia tra le lacrime.
De Sica e Zavattini non ci dicono molto su Umberto D., non raccontano il suo passato, sappiamo soltanto che è stato per trent’anni funzionario al ministero dei lavori pubblici e che non ce la fa a sopravvivere con la sua pensione. Agli autori non interessa altro che pedinare il protagonista e raccontare uno spaccato di vita, una parte di dramma, con crudo realismo, senza indulgere in sentimentalismi e ricordi lontani.
Umberto prova a farsi aiutare da vecchi colleghi, ma nessuno lo ascolta, tenta di chiedere la carità, ma la sua dignità non glielo consente. La scena di Flaik al Panteon, con il cappello del padrone in bocca che si regge sulle gambe e chiede l’elemosina, mentre Umberto è nascosto tra le colonne è emblematica. L’incontro con un vecchio conoscente provoca la drammatica interruzione della messa in scena con il maldestro tentativo di non far capire ciò che l’altro ha intuito.
Umberto medita il suicidio: “Sono stanco, stanco di tutto”. Carezza il suo cane, prende la valigia e decide di andarsene. Non manca un intenso dialogo con la serva e la paterna raccomandazione di liberarsi del fidanzato fiorentino. “Ho trovato. Me ne vado. E tu torna al tuo paese, Lascia andare quello di Firenze”.
Inizia la parte più drammatica del film e De Sica ci mostra un tram che si ferma, il protagonista che sale e la città al risveglio osservata dai suoi occhi tristi. Umberto vorrebbe affidare il cane a qualcuno, ma nessuno è disposto a tenerlo senza una contropartita e soprattutto non gli assicurano di trattarlo bene. Neppure una bambina affezionata al cane, che spesso incontrava al parco, lo può tenere perché l’istitutrice non se ne vuole occupare.
Umberto decide di morire insieme al cane. De Sica immortala la sua espressione intensa in un drammatico primissimo piano mentre si avvicina al passaggio a livello, oltrepassa la sbarra e sta per farsi travolgere dal treno in corsa. Il cane salva Umberto D. perché scappa via e il padrone lo rincorre desistendo dall’insano proposito. Le ultime immagini in campo lungo rappresentano la speranza: il pensionato corre insieme al cane mentre passa un gruppo di bambini.
De Sica e Zavattini raccontano la vita dei pensionati italiani degli anni Cinquanta che non riescono ad arrivare alla fine del mese e il film risulta - purtroppo - ancora molto attuale. In ogni caso, Umberto D. è più un film sulla solitudine umana e sulla incomunicabilità che un film sociale. La pellicola racconta il dramma del dopo guerra, ma anche la vecchiaia e la difficoltà di sopravvivere in solitudine, avendo solo un cane per amico e tanta gente che non ti comprende.
Umberto D. è una tragedia kafkiana dell’incomprensione, sulla falsariga di Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette. Non esistono affetti nel mondo descritto da Zavattini e De Sica, non c’è traccia di simpatia e di comprensione umana, ma regnano sovrani cinismo ed egoismo.
Gli autori vincono la sfida di dire quello che non si poteva dire e fanno innervosire i politici democristiani che vorrebbero lavori edificanti e poco critici nei confronti del sistema. Giulio Andreotti scrive su Libertà: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”. In epoca successiva lo stesso Andreotti ha confessato che il film gli era piaciuto, ma che come sottosegretario allo spettacolo aveva il dovere di scrivere certe cose.
Umberto D. rappresenta l’essenza del neorealismo, racconta per immagini uno spaccato di vita, un dramma personale, fotogramma dopo fotogramma, filmando la sua vita in luoghi reali. Il finale al passaggio a livello con il treno in corsa è la cosa più bella e riesce a dare persino un segnale di speranza.
De Sica gira Umberto D. subito dopo Miracolo a Milano (1951) e prima del fallimentare Mamma mia che impressione! (1951), attribuito a Roberto Savarese, con protagonista Alberto Sordi (già doppiatore in Ladri di biciclette) nel ruolo radiofonico del boy scout insieme ai compagnucci della parrocchietta. Umberto D. dimostra tutta l’abilità di de Sica nel far recitare persino un cane, come in Ladri di biciclette e Miracolo a Milano aveva dimostrato che si potevano fare grandi cose con i bambini.