Ostia antica. L'Oreste di Alfieri o del forte sentire

Articolo di: 
Teo Orlando
Alfieri

Il 6 agosto 2014 è andata in scena al Teatro romano di Ostia antica la rappresentazione dell’Oreste di Vittorio Alfieri, a cura della Compagnia Stabile del Molise. La trama della tragedia, composta dal grande scrittore astigiano nel 1783, benché pensata ed abbozzata già dal 1776, segue il modello classico, che è quello tramandatoci da Eschilo nelle Coefore. Ci troviamo ad Argo, nella reggia che già fu di Agamennone, il re che capeggiò la spedizione greca contro Troia, immortalata nell’Iliade di Omero.

In fondo il mito si impernia su una spirale di sangue e di vendetta, che vede contrapposte due famiglie: quella dei discendenti di Atrèo (Agamennone è detto anche l’Atrìde) e quella dei discendenti di Tièste. Nelle tragedie intitolate Agamennone sia Eschilo, sia Alfieri avevano narrato il brutale assassinio del protagonista, perpetrato dalla moglie Clitemnestra con la complicità dell’amante Egisto.

A dieci anni esatti dalla sanguinosa vicenda, il figlio di Agamennone e Clitemnestra, Oreste, ritorna dalla Focida, accompagnato dal fedele cugino Pilade, con un solo scopo: vendicare l’assassinio del padre, uccidendo Egisto, che ai suoi occhi ha usurpato il trono regale, e con lui anche sua madre, traditrice sul piano politico e su quello degli affetti. Come scrive il grande filologo Dario Del Corno, “i ruoli del fellone per Egisto e del vendicatore per Oreste sono già assegnati ai primordi della letteratura greca, nelle parole di Zeus che inaugurano l’adunanza divina all’inizio dell’Odissea; e così quello di Clitemnestra adultera e complice del delitto, assassina di Cassandra, come la maledice l’ombra di Agamennone incontrata da Odisseo nell’aldilà”.

Pertanto, tutte le successive riscritture del mito si snodano sulla base dell’originario paradigma omerico. E quella dell’Alfieri non fa eccezione, anche se rispetto al modello antico, per lui incarnato piuttosto da Seneca che da Eschilo (anche se il drammaturgo latino non scrisse mai una tragedia dedicata ad Oreste, si trova una caratterizzazione della sua figura nell’Agamennone, dove del figlio del monarca argivo viene predetta la missione vendicatrice), si può rilevare una sostanziale differenza: Oreste sembra consunto esclusivamente dalla brama di uccidere Egisto, mentre l’assassinio di Clitemnestra, conformemente a quanto aveva predetto l’oracolo, sembra invece quasi la conseguenza di un raptus, in cui Oreste agisce sulla spinta di forze pulsionali e inconsce, frutto di una personalità patologica e di una sorta di cortocircuito nel controllo delle proprie passioni. Peraltro, nel personaggio alfieriano, interpretato in modo fermo e lucido da Diego Florio, è assente il tormento della coscienza dell'eroe greco che lotta vanamente contro i decreti della dea ἀνάγκη [ananke] (il fato o la necessità), fino a raggiungere la catarsi attraverso le varie tappe della sua esperienza esistenziale.

Rispetto al mito di ascendenza eschilea, nella tragedia alfieriana scorgiamo dei tratti che fanno sì che nell’eroe greco convergano alcuni motivi tipici dei caratteri del drammaturgo di Asti, atti a sottolinearne la solitudine e l’eccezionalità. I personaggi alfieriani riflettono l’attitudine riflessiva dello stesso scrittore, che si compiaceva di una tendenza meditabonda e solitaria, tale da indurlo a riflettere e ad elaborare fantastiche, melanconiche e grandiose meditazioni accompagnate da riflessioni sui classici, come Le vite parallele di Plutarco, che per lui costituivano un modello in grado di accendere la febbre per azioni generose ed eroiche, con i suoi ideali di magnanimità e di grandezza: ideali che in qualche modo placavano la sua noia e la sua angoscia, che lo perseguitavano nei suoi viaggi, sia materiali (da Parigi a Londra, dalla Germania alla Russia, dal Portogallo alla Danimarca), sia di pensiero e spirito. E saranno queste sue idealità a portarlo verso la poesia, che in qualche mondo rappresenta il principio del bene contro il principio del male, incarnato dalla figura del tiranno. È come se la poesia fosse in qualche modo la vera religionelaica” dell’Alfieri, dato che nella tragedia si avverte tanto poco quanto nulla la presenza del divino.

Oreste ci appare intento all’ideasacra” (nel senso di solenne e, antifrasticamente, di empia, come l’homo sacer, oggetto di un mirabile saggio di Giorgio Agamben, e che il grammatico latino Festo definiva “colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio”) della vendetta. Così egli non sopporta attese o astuzie preliminari, sicché rivela ad Egisto, incarnazione della tirannide, la sua identità e le sue intenzioni. E prosegue deciso e risoluto sulla sua strada, cosciente, come gli ricorda l’amico e cugino Pilade, che non potrà sperare soccorso o ausilio dal popolo imbelle e sottomesso al tiranno:

Che speri?
che in cor di serva plebe odio od amore
possa eternarsi mai? Dai lunghi ceppi
guasta avvilita, or l'un tiranno vede
cadere, or sorger l'altro; e nullo n'ama,
e a tutti serve; ed un Atride obblia,
e d'un Egisto trema.

(Oreste, Atto II, scena prima).

In qualche maniera Alfieri rende più scarni ed essenziali i meccanismi del dramma antico, quasi prosciugandoli. Alla coralità dei riti collettivi, visti nella loro dimensione sociale, si sostituiscono le vicende e le passioni private di uomini e donne dal “forte sentire”, ossia quella sorta di “furoreemotivo e passionale che è l’autentica essenza dell’uomo (anche se controllare le passioni e liberarsene, come insegnava il filosofo Baruch Spinoza, è proprio dell’uomo veramente libero) e da cui soltanto può scaturire la poesia: come ha rilevato il critico Mario Fubini, “il furore che trasporta personaggi come quelli dell’Oreste si risolve in un’azione frenetica che a cagione della sua stessa violenza in breve si esaurisce per placarsi infine in una calma funerea”: il conflitto tragico si scioglie solo con la morte o con la follia (in quella di Oreste assistiamo anche a una repressione delle sofferenze vissute, in senso psicoanalitico), che non troverà poi una soluzione tramite le Erinni divenute Eumenidi (dee benefiche), come nella terza parte della trilogia eschilea.

Il mito delle furie vendicatrici (le cosiddette Erinni) è interpretato semplicemente calandolo all’interno della coscienza del matricida. Del resto, tutto ruota intorno ai personaggi principali, essendo assente il coro e venendo limitati quelli secondari. Personaggi principali che non sono più tanto gli eroi del mito greco quanto eroidomestici”, che vivono le loro tragiche vicende dentro le mura di una casa (e in questo Alfieri rispetta le cosiddette unità di tempo, luogo e azione), quasi ad anticipare il teatro borghese dove la famiglia è l’epicentro della tensione drammaturgica. Sono eroi che preferiscono i monologhi brevi e i dialoghi concitati, scanditi dall’endecasillabo sciolto e dal linguaggio nobile e aulico.

Linguaggio che non è tanto l’italiano del Settecento quanto quello della nostra grande tradizione letteraria, di cui egli si nutrì in profondità. E alla purezza di questo dettato il regista è stato fedele, astenendosi da qualsiasi operazionemodernizzatrice” sulla lingua, in cui gli attori hanno recitato con ammirevole disinvoltura e naturalezza (in particolare, oltre a Diego Florio nel ruolo di Oreste, anche Chiara Cavalieri come Clitemnestra e Raffaello Lombardi come Egisto). Per certi versi è più facile adottare un linguaggio e un registro contemporanei mettendo in iscena la tragedia greca: in quel caso, la fedeltà filologica non è chiamata in causa, perché abbiamo a che fare con traduzioni. Ed è la scelta degli sceneggiatori quella di utilizzare traduzioni più consentanee con gli uomini di oggi (anziché quelle arcaiche di un Ettore Romagnoli o di un Manara Valgimigli). La lingua di registro elevato che l’Alfieri adoprò testimonia anche, per ripetere le parole del filosofo tedesco Wilhelm Dilthey, “il sentimento profondo dell’unità della propria creazione poetica con l’antichità classica, la quale non è quella di Goethe, sublime ed estranea, ma il proprio passato nazionale. E nel suo sentimento patrio egli accoglie anche i Greci, che si erano insediati in parte in Italia”.

Una nota finale su scenografia e costumi: la scelta è stata quella di un’estrema e forse eccessiva sobrietà “attualizzante”, nel senso che gli attori vestivano per lo più abiti civili di oggi, e sulla scena risaltavano letti, poltrone e un vecchio televisore in bianco a nero che sembravano provenire dai magazzini di qualche rigattiere di Porta Portese. Al di là delle scelte stilistiche che possono aver determinato questo tipo di allestimento, abbiamo avuto un’impressione di un approccio deliberatamente “low cost”, che certo non è andato a scapito dell’interpretazione, perché gli attori hanno egregiamente recitato i difficili endecasillabi alfieriani, ma che non si combinava adeguatamente con lo scenario “archeologico” del Teatro romano di Ostia antica. Del resto, come ci ricorda Oscar Wilde nel saggio The Truths of Masks, "l'archeologia non è un metodo pedantesco, ma un metodo di illusione artistica". L'uso di determinati costumi di scena "è un mezzo per visualizzare i caratteri senza descrizione e di produrre effetti e situazioni drammatiche". In fondo, le "verità della metafisica sono le verità delle maschere" (The truths of metaphysics are the truths of masks).

Pubblicato in: 
GN36 Anno VI Numero doppio 31 luglio - 7 agosto 2014
Scheda
Titolo completo: 

Teatro Romano di Ostia antica

6 agosto 2014

ORESTE
di Vittorio Alfieri

Compagnia Stabile del Molise

REGIA:
Ilario Grieco
Aiuto REGIA:
Giulio Maroncelli
assistente alla regia Claudio Maroncelli
COSTUMI e SCENE:
Silvia Perrella

ATTORI INTERPRETI:
Paola Cerimele, ELETTRA
Chiara Cavalieri, CLITEMNESTRA
Raffaello Lombardi, EGISTO
Diego Florio, ORESTE
Giòrgio Careccia, PILADE