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La Medea di Euripide a Ostia antica. L'ibsenismo della tragedia greca
Il 25 luglio 2012 l’incantevole scenario del Teatro Romano di Ostia Antica ha ospitato la rappresentazione unica della Medea di Euripide, tragedia-simbolo della grande passione umana e segnatamente di quella femminile, diretta dal regista Maurizio Panici e interpretata da Pamela Villoresi, con grande πάθος [páthos] non disgiunto da eleganza.
Il dramma euripideo – che ottenne il terzo premio agli agoni drammatici del 431 a. C. - si può considerare una sorta di epitome della difficoltà che incontra chi è diverso anche nella Grecia classica. Medea congiunge nella sua persona la condizione di donna, straniera, o barbara, in terra greca, e di maga dotata di poteri semidivini, in quanto discendente da Elio, il dio-Sole, e dalla maga Circe.
Nella sua vicenda si compie un destino paradossale, quasi asimmetrico rispetto a quello di Edipo. Come quest’ultimo viene accolto dalla città di Tebe dopo vicende che riveleranno solo tardivamente la loro intrinseca drammaticità, così Medea viene invece bandita da Corinto, dopo che Giasone, il legittimo marito, aveva deciso di abbandonarla in favore di Creusa, figlia del re Creonte (da non confondere con l’omonimo re di Tebe). L’atroce vendetta di Medea viene consumata coniugando la razionalità della calcolatrice, quasi sofistica nella visione euripidea, e le arti e i sortilegi della nipote della maga Circe, nell’ultimo giorno che Creonte le ha concesso di trascorrere a Corinto.
Con grande abilità Medea simula l’intenzione di volersi riconciliare con Giasone, fingendo di comprendere i motivi che hanno indotto l’eroe della conquista del Vello d’oro a contrarre nuove nozze. Con abili manovre, lo convince a far sì che i figli possano rimanere ancora nella casa paterna. Attraverso gli stessi bambini, invia a Creusa un peplo e un diadema, intrisi di un potentissimo veleno che distrugge le carni della giovane donna e di suo padre Creonte, accorso in un disperato tentativo di salvarla.
Ma perché la vendetta si compia definitivamente, Medea infligge all’ingrato Giasone la pena più grande che si possa concepire: decide infatti di uccidere i suoi stessi figli, avuti con lui, Mermo e Fere. Una volta compiuto l’orribile delitto, si libra sul carro del Sole, decidendo infine di seppellire i figli e fuggendo ad Atene, dove il re Egeo, di passaggio a Corinto, le ha promesso ospitalità, mentre Giasone rimane sconsolato a inveire contro la donna di origini barbariche, che ha rovinato per sempre la sua casata e lo ha condannato a un destino di eterna infelicità.
Infelicità che in qualche modo riecheggia quella della medesima Medea, i cui continui lamenti e il cui ossessivo conflitto interiore sono raccolti dal coro delle Corinzie (qui interpretato da una sola attrice), che le promettono solidarietà nella vendetta, salvo poi disapprovare l’uccisione dei figli. È Giasone che riscuote invece unanime condanna, soprattutto per la sua ingratitudine e per aver agito spinto da interesse, e non dal dèmone dell’eros, da lui stesso invocato.
D’altra parte, come ha sottolineato il grecista Luigi Enrico Rossi, nel personaggio di Medea Euripide ha riunito i caratteri razionali desunti dal socratismo e dalla sofistica (che per Friedrich Nietzsche erano il suo limite) con quelli irrazionali derivanti dall’impulso dionisiaco. L’analisi razionale (le deliberazioni, bouleumata [βουλεύματα]) della sua situazione conferma a Medea la necessità di vendicarsi, che le viene suggerita anche dal suo istinto irrazionale (thymós [θυμός]), verificando il principio eracliteo per cui “è difficile combattere contro il thymós”. A differenza che per Socrate, dove la conoscenza razionale del bene spinge necessariamente alla sua attuazione (intellettualismo etico), per Euripide essa diventa una sorta di fredda preparazione all’attuazione di un piano criminoso.
Della Medea euripidea sono state fornite innumerevoli interpretazioni e decine di riletture, da quella di Seneca a quelle di Pier Paolo Pasolini e Christa Wolf. Tutte incentrate sulla tesi che è la figura femminile la vera protagonista della grande tragedia greca perché capace di mettere in discussione la vecchia cultura e in particolare i rapporti tra l’uomo e la donna, diventando alfiere di un nuovo pensiero, basato sulla contestazione dell’ordine esistente e su un contenzioso che lascia intravedere nuove possibilità per quanto attiene ai rapporti sociali.
L’eroina, pur essendo spinta dal demone delle passioni umane, motiva le sue azioni come un modo per ristabilire una forma di giustizia e non semplicemente per vendicarsi di un tradimento sentimentale. Giustizia che viene così tanto rispettata, che la protagonista non esita a colpire sé medesima immolando i suoi stessi figli. Del resto, il grande grecista Vincenzo Di Benedetto, nella sua fondamentale monografia su Euripide, pur prendendo le mosse, in chiave marxista, dalla crisi della polis, sottolinea che Euripide non guarda ai valori artistici tanto sotto il profilo della socialità quanto sotto quello dell’irriducibilità della personalità femminile alle coazione delle regole politiche. Si deve comunque sottolineare come la condizione delle donne sole e abbandonate in Grecia fosse molto problematica, perché rimanevano senza alcuna protezione ed esposte a una situazione di paura e incertezza.
Il passo fondamentale in proposito è il seguente:
Fra tutti gli esseri che hanno vita e pensiero, noi donne siamo la stirpe più sventurata: noi, che prima di tutto siamo costrette a comprare per denaro uno sposo, che sia signore della nostra persona; poi, male ancora più doloroso dell’altro, c’è rischio in ciò grandissimo, e questo padrone sarà buono o cattivo; poiché le donne non hanno un modo onorevole di sciogliere le nozze, né possono ripudiare lo sposo.
(Medea, vv. 230-235, tr. it. di Guido Paduano).
πάντων δ᾽ ὅσ᾽ ἔστ᾽ ἔμψυχα καὶ γνώμην ἔχει
γυναῖκές ἐσμεν ἀθλιώτατον φυτόν:
ἃς πρῶτα μὲν δεῖ χρημάτων ὑπερβολῇ
πόσιν πρίασθαι, δεσπότην τε σώματος
[λαβεῖν: κακοῦ γὰρ τοῦτ᾽ ἔτ᾽ ἄλγιον κακόν].
235κἀν τῷδ᾽ ἀγὼν μέγιστος, ἢ κακὸν λαβεῖν
ἢ χρηστόν: οὐ γὰρ εὐκλεεῖς ἀπαλλαγαὶ
γυναιξὶν οὐδ᾽ οἷόν τ᾽ ἀνήνασθαι πόσιν.
Euripides, Medea, Greek text with an English translation by David Kovacs, The Loeb Classical Library, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1994.
In questi versi traspare quello che è stato definito l’ibsenismo di Euripide: come nelle opere del drammaturgo norvegese Erik Ibsen (1828-1906), così anche in Euripide viene denunciata la materializzazione economica e opprimente dei fattori etico-spirituali, che rovina entrambe le parti di un’unione coniugale. Ma questo avviene in modo difforme per i due sessi, in Euripide: l’uomo si limita a compiere una scelta condizionata dalle regole sociali ed economiche, ma nel quadro di una situazione di privilegio. La donna parte da una mancanza di libertà iniziale che in seguito si traduce in una sottomissione irrevocabile. Come fa dire Ibsen a Nora, la protagonista di Casa di bambola, “dalle mani di mio padre sono passato nelle tue”. Del resto, lo stesso Euripide può permettersi di denunciare la discriminazione femminile in una società che privilegiava i diritti della stirpe (ghénos [γένος]) solo insistendo sull’origine barbarica di Medea, e quindi su una sua diversità antropologica di fondo.
Nelle note di regia, Maurizio Panici sottolinea come il drammaturgo francese Jean Anouilh (1910-1987; è l'autore di una Medea nonché di una celebre Antigone scritta durante l’occupazione nazista della Francia, dove nel re di Tebe Creonte viene adombrata la figura del tiranno spietato) abbia paragonato la tragedia a una molla caricata che si scaricherà da sola durante la rappresentazione. Così Medea è in grado di provocare, come una molla che si scarica, un cortocircuito emotivo negli spettatori, messi di fronte al crollo della famiglia e delle istituzioni patriarcali e gerarchiche, nel quale si assiste all’eversione della pace sociale.
La scenografia (a cura di Michele Ciacciofera) è scarna e ridotta all’essenziale, coma una landa desolata su cui agiscono i personaggi, Medea/Pamela Villoresi, scalza e con un vestito di raso rosso, la corifea Evelina Meghnagi al posto dell’intero coro (bravissima anche nella recitazione interpolata di una poesia di Catullo e nel canto in greco), e i personaggi maschili in abiti moderni (Massimiliano Franciosa nel ruolo di Giasone, Renato Campese in quello di Creonte e lo stesso Maurizio Panici in quello di Egeo). Il tutto assecondato dalla sobria tessitura musicale di Luciano Vavolo, in grado di fondere abilmente suggestioni antiche e moderne.