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Euripide tra Ippolito e Fedra. Il ritorno del represso tra mito e razionalità
Il primo agosto 2010 è andata in scena al Teatro di Tusculum, a cura dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico, la Fedra (titolo originale Ippolito portatore di corona - Ἱππόλυτος στεφανοφόρος/Hippólytos stephanophóros) di Euripide, nella versione di Edoardo Sanguineti (da poco scomparso e ricordato dal Sovrintendente, Fernando Balestra, in una breve ma toccante cerimonia conclusiva), per la regia di Carmelo Rifici, con Elisabetta Pozzi e Massimo Nicolini come interpreti principali.
Si tratta di un testo denso e ricchissimo di risvolti concettuali: del resto, i grandi tragediografi greci hanno sempre attratto l’attenzione dei filosofi, che hanno visto nelle loro opere l’oggettivazione di temi universali, come per altri versi si può constatare nei drammi di Shakespeare. Euripide non fa eccezione, ma più di altri autori è oggetto di controversie e di pareri difformi.
George Steiner, in uno dei suoi pregnanti articoli apparsi sul New Yorker, ricorda il ruolo decisivo che esercitò nel 1901 sul giovane Bertrand Russell la lettura della traduzione dell’Ippolito di Euripide ad opera del grande filologo Gilbert Murray, inducendolo ad abbracciare idee pacifiste e ad apprezzare di più la bellezza, soprattutto quando espressa attraverso la nobiltà insita nella sofferenza umana. Testimonianza di come la tragedia sia ancora capace, catarticamente, di stimolare sentimenti di pietà e di terrore nell’uditorio, fino al punto tale da far identificare Russell col personaggio euripideo.
È invece nota la profonda avversione che un altro grande filosofo, di matrice diremmo oggi "continentale", Friedrich Nietzsche, provava verso Euripide, da lui definito empio, pensatore piuttosto che poeta, e considerato una sorta di "maschera" dietro cui si nascondeva la figura di un “demone di recentissima nascita”, Socrate (nonostante, come ha rilevato il filologo Bruno Snell, la forte distanza tra l’etica razionalistica di stampo socratico e l’ideologia di Euripide, che fa dire alla nutrice di Fedra: “I saggi infatti, pur non volendo, tuttavia i mali amano.” [οἱ σώφρονες γάρ, οὐχ ἑκόντεϛ αλλ᾿ὅμως,/κακῶν ἐρῶσι], vv. 358-359).
La sua responsabilità è consistita soprattutto nell’aver manipolato il mito, una creatura ormai moribonda, attraverso le sue braccia violente. Anche il mito di Ippolito e Fedra viene travestito, nonostante l’antica pompa di cui è adornato: i personaggi mitologici vengono trasformati in eroi quotidiani, e non solo per la ripresa di tópoi dei racconti popolari, come quello della vendetta della donna vilipesa (che richiama il racconto biblico di Giuseppe e la moglie di Potifar, evocato anche da Dante nel canto XXX dell'Inferno), ma anche perché nella sua rappresentazione non vengono descritti solo i tratti grandi e arditi degli eroi, bensì pure le linee non riuscite della natura. Tuttavia, l’importante per Euripide è la spiegazione razionale del mito, al punto che Nietzsche può affermare che la legge suprema del suo cosiddetto socratismo estetico suona: “Tutto dev’essere razionale per essere bello”.
E non è un caso che si trovi più consonanza tra Euripide e Bertrand Russell, grande logico ed uno dei fondatori della filosofia analitica, intesa come disciplina razionalizzante, mentre un filosofo che ha sempre avversato l’intellettualizzazione della realtà, come Nietzsche (per il quale “i fanatici della logica sono insopportabili come vespe” e la cui eredità è rivendicata soprattutto dai sostenitori dell'ermeneutica), non può che trovare aberrante la poetica euripidea dove il personaggio tragico deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni.
Tutte queste tematiche sono presenti in filigrana nella trama dell’opera, ambientata a Trezene, dove Teseo, padre di Ippolito e re di Atene, si trova in esilio come pena per l'omicidio dei figli di Pallante.
Afrodite decide di punire Ippolito perché questi è un giovane casto dedito alla caccia e al culto di Artemide, sua rivale. Quindi accende la matrigna Fedra di insana passione per il figliastro. La nutrice strappa a Fedra il segreto, preoccupata per la sua morbosa condizione di anoressia e di sfiorimento. Le consiglia quindi un filtro magico, ma poi cerca un colloquio con Ippolito che la insulta. Fedra decide di suicidarsi, dopo essere venuta a conoscenza di tutta la vicenda. Ippolito si produce poi in un’allocuzione misogina, e dichiara di non voler rimanere sotto il tetto della matrigna, in assenza del padre.
Terrà però fede al giuramento di tacere pronunciato di fronte alla nutrice. Ma Fedra si uccide ugualmente, temendo lo scandalo e lasciando a Teseo uno scritto in cui accusa Ippolito di averla violentata. Teseo prega Poseidone di annientare Ippolito, bandendolo da Atene. Ma questi protesta la sua innocenza, senza peraltro venir creduto. A questo punto Ippolito si allontana dalla città, chiedendo a Zeus di far trionfare la verità, ma viene travolto dai cavalli terrorizzati da un mostro marino mandato da Poseidone. Viene riportato indietro da una lettiga e prima di morire perdona il padre.
Anche i mezzi stilistici evidenziano il montaggio accorto della tragedia. Il dramma è preceduto dall’apparizione di Afrodite e chiuso da quella di Artemide, che funge da deus (o, per meglio dire, da dea) ex machina.
Del resto, il razionalismo euripideo si esprime anche in un’organizzazione della materia che sembra echeggiare una sorta di mos geometricus: il primo e il terzo episodio presentano una corrispondenza simmetrica, perché l’uno prepara la rovina di Fedra e l’altro quella di Ippolito. Analogamente, il secondo e il quarto episodio sono accomunati dalla morte di Fedra e da quella di Ippolito. E perfino il prologo e l’epilogo (ἔξοδος, éxodos) formano una sorte di cornice caratterizzata dalla presenza delle divinità, Afrodite e Artemide.
Di rilievo è anche il gusto astratto per il dibattito, nonostante la condanna della retorica, evidente nei vv. 486-489 e 500-502: ad esempio Ippolito, prima di rispondere direttamente alla nutrice, si produce in una requisitoria contro le donne e il matrimonio.
Requisitoria che, peraltro, non autorizza a trarre conclusioni corrive su una presunta misoginia del grande tragediografo. Più correttamente, Guido Paduano ha parlato di ibsenismo di Euripide. Sia in lui che in Henrik Ibsen, grande drammaturgo norvegese, c’è l’idea che la donna sia sottomessa a una costrizione sociale che viola il momento fondamentale della libertà di scelta del partner. Tale vincolo si accompagna a fattori economici, riducendo a mercato la vita in due. Non a caso Ippolito lamenta che la dote della donna costituisce una pesante schiavitù per l’uomo che la riceve. La materializzazione dei fattori etico-spirituali si riferisce però ad entrambe le parti. E anche in Ibsen il matrimonio diventa un mercato, oppresso dalla struttura borghese e mistificante della dote, come si può notare nei suoi drammi più significativi, da L’anatra selvatica a La donna del mare fino a Casa di bambola.
Non è del resto un caso che Euripide non voglia inscenare la confessione dell’amore di Fedra per Ippolito di fronte a quest’ultimo, ma solo in un colloquio con la nutrice, e con la presenza delle donne del Coro, quasi di rito nell’economia drammaturgica. È questa forse la maggiore differenza che separa il dramma euripideo dalle numerose riprese successive del mito di Fedra, nelle omonime tragedie di Seneca, Racine, Swinburne, D’Annunzio e della Cvetaeva.
È peraltro verosimile che nell’altra tragedia da Euripide dedicata alla stessa tematica, l’Ippolito velato (purtroppo andata perduta, ma verosimilmente nota a Seneca che ne avrebbe trasfuso alcuni particolari nella sua Fedra), la confessione di Fedra fosse stata più direttamente resa a Ippolito, la cui ritrosia di fronte all’aggressione affettiva materna viene sottolineata dalla scelta di velarsi il capo. E non a caso Aristofane, ne Le rane, dipinge Fedra come l’emblema del vizio femminile, ed Euripide come un corruttore del popolo ateniese.
Non è privo di significato, peraltro, il fatto che le passioni assumano una dimensione sociale. Come ha rilevato Francesco Orlando (riferendosi alla Phèdre di Racine, ma l’osservazione si può applicare anche ad Euripide), “lo scandalo coinvolge immediatamente nel processo criminale intimo, nel ritorno del represso [espressione freudiana: die Wiederkehr des Verdrängten], gli altri; e il coinvolgimento degli altri a sua volta incoraggia e rende irreversibile il processo intimo”. La dimensione sociale del dramma è anzi ancora più evidente nella tragedia antica rispetto a modelli moderni, come l’Otello di Shakespeare o il Tristano e Isotta di Wagner. Si tratta dell’effetto di quella “civiltà della vergogna”, solo gradualmente sostituita dalla “civiltà della colpa” (Shame-Culture vs Guilt-Culture), su cui ha messo giustamente l’accento il grande filologo Eric Dodds (The Greeks and the Irrational, 1951).
E più di tutte sono le donne che subiscono non solo i colpi avversi del fato, ma anche le azioni perfide degli altri esseri umani. Aspetto ben evidenziato nel monologo di Fedra che precede la sua morte:
Infelici, oh sfortunati,
delle donne, i destini.
Quali, adesso, arti abbiamo, o parole,
noi abbattute, il nodo, per sciogliere, del male?
Abbiamo trovato le punizioni: ohi, terra e luce,
per dove mai sfuggiremo alle sfortune?
Come, la mia pena, nasconderò, mie care?
Quale, tra gli dèi, soccorritore, o quale, tra i mortali, assistente,
o collaboratore di ingiuste opere,
può apparire? Presso di noi, infatti, la pena
presente, impraticabile, viene, della vita.
Malfortunatissima, tra le donne, io.
(Fedra/Ippolito portatore di corona, vv. 667-679, traduzione di Edoardo Sanguineti).
τάλανες ὦ κακοτυχεῖς
γυναικῶν πότμοι.
τίν᾽ ἢ νῦν τέχναν ἔχομεν ἢ λόγον
670σφαλεῖσαι κάθαμμα λύειν λόγου;
ἐτύχομεν δίκας. ἰὼ γᾶ καὶ φῶς:
πᾷ ποτ᾽ ἐξαλύξω τύχας;
πῶς δὲ πῆμα κρύψω, φίλαι;
675τίς ἂν θεῶν ἀρωγὸς ἢ τίς ἂν βροτῶν
πάρεδρος ἢ ξυνεργὸς ἀδίκων ἔργων
φανείη; τὸ γὰρ παρ᾽ ἡμῖν πάθος
πέραν δυσεκπέρατον ἔρχεται βίου.
κακοτυχεστάτα γυναικῶν ἐγώ.
Euripides, Hippolytus, Greek text with an English translation by David Kovacs, The Loeb Classical Library, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2002.
Degli attori, oltre alla splendida prova di Elisabetta Pozzi, la quale sa alternare i momenti freddi e quelli passionali che scolpiscono la personalità di Fedra (figlia della Legge, incarnata nel padre, il saggio e giusto re Minosse, e del Desiderio, simbolizzato dalla madre Pasifae, che accoppiandosi con un toro bianco in seguito generò il Minotauro), si può sottolineare anche la maestosità di Artemide (Alessia Giangiuliani), evidenziata particolarmente da una rutilante veste dorata.
Massimo Nicolini interpreta dal canto suo un Ippolito sofferente, dando voce con notevole icasticità alla sua dimensione di uomo lacerato da quello che ritiene sia l’accanimento contro di lui da parte delle persone in cui aveva riposto maggiore fiducia. Degni di menzione sono anche gli splendidi costumi nella loro tonalità turchese, e le musiche quasi new age di Daniele D’Angelo, a tratti rievocanti lo stile dei Dead Can Dance, con la maestosa solennità dell’organo a scandire la fine del dramma.