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Medea al Teatro Cassia. La verità ancestrale nella sua Voce
Dall’oscurità si odono delle voci che si rincorrono confusamente, intrecciandosi indissolubilmente. Una sola parola si staglia più nitidamente delle altre: selvaggia, è il grido che chiaro arriva da una voce fuori campo. Una tale atmosfera di misteriosa sospensione pervade il teatro Cassia di Roma per la rappresentazione di Voci –Medea, spettacolo messo in scena, tra il 19 e il 21 aprile 2012, dalla compagnia Aleph e diretto da Paola Scoppettuolo.
A rivivere sul palco del teatro Cassia è il romanzo della scrittrice tedesca Christa Wolf, Medea-Voci, pubblicato nel 1996, che ci riconsegna un ritratto del tutto inedito di tale personaggio, relegato, fino a quel momento, al ruolo di infanticida e di maga. L’autrice della ex Repubblica Democratica Tedesca, per dare forma e consistenza a questa figura femminile, attinge al mito preeuripideo, discostandosi notevolmente dall’immagine proposta dal drammaturgo ateniese Euripide.
Il tratto caratteristico della wolfiana Medea è proprio l’indole selvaggia, che la regista Scoppettuolo enfatizza sin dall’inizio dello spettacolo. È significativo che sia proprio la danza il linguaggio scelto in questa rappresentazione teatrale per dare forma alla libertà di una donna, che non riesce ad essere irretita nei meccanismi sociali: i movimenti del corpo sono ritenuti i significanti più adatti per sostanziare verità ancestrali, come quelle di cui è portatrice il nostro personaggio.
In uno sfondo essenziale, poco illuminato, si muovono dei personaggi: sono Medea, Giasone, Glauce e altre voci, ovvero altri testimoni della vicenda, che concorrono a restituire i frammenti della complessa psicologia dell’indomita eroina. Una danza concitata trascina gli spettatori negli abissi della mente di Medea, nei suoi ricordi di un’età lontana, quando era ancora nella sua terra, nella sua Colchide; il movimento di corpi nudi esprime proprio il carattere primordiale e naturale di questo mondo, dove era permesso alla donna, come proclama impetuosamente il personaggio sulla scena, di essere ancora Medea, la selvaggia che pratica i rituali della Madre Terra.
La semplicità di questa realtà è, tuttavia, solamente un ricordo lontano per la donna, perché ormai è giunta, insieme a Giasone, nella civilizzata Corinto, la città ossessionata dalla brama dell’oro, come si legge nel testo della Wolf. Sulla scena il movimento dei ballerini, cadenzato da musiche fortemente ritmate, sembra disegnare gesti meccanici e automatici, per rendere evidentemente l’idea della frenesia con cui si svolgono le esistenze dei Corinzi: tutti intenti a produrre benessere, simulando una felicità apparente che si fonda sulla rimozione della consapevolezza.
Sulla scena, infatti, i personaggi mantengono lo sguardo fisso davanti, volteggiano secondo movimenti sin troppo lineari, volendo forse rappresentare proprio quest’impossibilità di guardarsi intorno, di esercitare la facoltà di vedere al di là di ciò che è stabilito dal potere. Ad un certo punto questo ordine apparente si sgretola e da movimenti cadenzati e prestabiliti si passa al caos, mimato da passi veloci, che si discostano da linee precostituite, seguendo direzioni anarchiche. E i corpi restituiscono il senso di un’agitazione che, sotterraneamente, pervade il palazzo di Corinto: la città, infatti, ha le sue fondamenta su un misfatto, come scrive la Wolf, che nessuno deve rivelare. Medea, invece, volgendo il suo sguardo al di là della menzogna ha scoperto ciò che nessuno voleva vedere, in quanto il suo istinto non le offusca la razionalità e la consapevolezza. Lei sola è riuscita a squarciare, infatti, il velo delle apparenze, quell’ordine solo apparentemente superficiale, pagando duramente un tale ardire.
Alla vita fatta di schemi precostituiti Medea vuole opporsi. Non è casuale, infatti, che il suo amore per Giasone venga da lei stessa rievocato come strettamente connesso alla dimensione dei sensi. "Le mani hanno memoria", pronuncia il personaggio sulla scena, riecheggiando il testo wolfiano. Cariche di sensualità sono anche le immagini delineate dai danzatori, che ci restituiscono l’ essenza istintiva del personaggio, che soffoca quando viene disciplinata dalle convenzioni sociali. Il matrimonio, infatti, viene vissuto dalla donna come un qualcosa che le genera sofferenza, come se soffocasse la sua energia vitale. Ecco che si impone, dinanzi agli occhi degli spettatori in sala, una fanciulla quasi strozzata dal velo nuziale bianco, in disparte rispetto allo sposo, alla quale giunge da lontano quell’eco di festa a cui gli altri partecipano.
Giasone, intanto, volteggia tra le altre donne, simboleggiando i tradimenti dell’uomo, in particolare quello con Glauce, la figlia del re Creonte, che accentua la solitudine della donna. Altre immagini, intanto, si inseguono sulla scena, come quelle che ricostruiscono la maternità, il legame profondo con i figli, il suo riappropriarsi dei suoi frutti, fino a ritornare nello spazio atemporale dell’Ade, come spiega la stessa regista Scoppettuolo. Ed è così che le voci si allontanano, le note musicali si attenuano, ritornano il silenzio e l’oscurità a regnare su tutto.