Zurigo. Peter Hammill ed i suoi labirintici misteri

Articolo di: 
Teo Orlando
Hammill

Il 27 ottobre 2012 si è concluso il tour nordeuropeo di Peter Hammill, con un concerto per happy few nel club El Lokal di Zurigo. Il leader dei Van Der Graaf Generator è apparso nella sua veste apparentemente più sobria, dimessa e modesta, ossia quella che coniuga il suo incomparabile talento cantautoriale e poetico con la tendenza a sfruttare al massimo le risorse timbriche degli unici due strumenti che, da solo (in un tipico one man-show), ha utilizzato sul palcoscenico, ossia un pianoforte elettrico e una chitarra amplificata.

In una negazione voluta e consapevole di qualsiasi dimensione da artista di massa e con un rifiuto esplicito di ogni concessione ai palati di possibili audience non raffinate, Hammill si è esibito di fronte a un pubblico di non più di 100 persone, assiepate nel piccolo club zurighese, che lo hanno ascoltato con un silenzio e una concentrazione a metà tra la partecipazione a una conferenza letteraria, un concerto di musica classica e un rito laico di fruizione della parola poetica trasposta e accompagnata da scheletri sonori scarni ma quanto mai incisivi.

Per evitare equivoci, vorremmo sottolineare che niente ci sembrava più lontano da una specie di rituale religioso della partecipazione del pubblico al concerto di Hammill: non si trattava di spettatori adoranti e acritici, pronti a venerare l’artista e a sentirsi parte di un rito sciamanico. Tutt’altro, anche per la stance tipicamente “illuminista” e poeticamente razionalista che promana dai testi hammilliani: gli spettatori esibivano più che altro una conoscenza puntigliosa dei testi e delle musiche dell’artista, ma sembravano pronti a criticare senza sconti eventuali esecuzioni non felicissime confrontandole con altre più memorabili di un passato ormai pluridecennale e glorioso, forte di una cinquantina di dischi, contando sia quelli da solista, sia quelli incisi con la sua band o con altri collaboratori. E non è un caso che ad ogni concerto egli decida di cambiare scaletta, pescando dal suo ormai immenso canzoniere e regalando ai suoi ascoltatori sorprese e interpretazioni sempre rinnovate.

Hammill si presenta sul minipalcoscenico alle 21,00, vestito con studiata sobrietà e con il volto solcato da rughe che testimoniano la sua maturità non solo anagrafica, ma anche compositiva e lirica. Appena sedutosi al pianoforte, dopo aver salutato brevemente sia in inglese, sia in tedesco (essendo egli poliglotta, e avendo perfino inciso un disco in tedesco Offensichtlich Goldfisch), attacca con “My Room (Waiting for Wonderland)”, pezzo prelevato dal repertorio dei Van Der Graaf Generator (dal leggendario album Still Life), ma qui eseguito spoglio di tutte le sovrastrutture progressive che ne avevano fatto un brano affascinante anche per la musica. In questo caso sono piuttosto le liriche a parlare, insieme con una voce chilling e intensa come poche.

La stanza di cui si parla è nient’altro che una metafora atta ad esprimere una radicale solitudine mentale. Non è una stanza fisica, abitata da fantasmi e spettri, ma un luogo irreale, freddo e oscuro in modo inquietante, dove si attende invano il ritorno della persona amata (che non a caso si chiama Alice): il paese delle meraviglie, la Wonderland tanto desiderata, si è eclissata per sempre. Rimane solo la stanza in cui l’io del poeta può tormentarsi in un’attesa infinita, consacrandosi a un’esistenza da eremita, oppure, scindendo sé stesso, può sperare nell’amore di un’altra persona:

Lost in a labyrinth of future mystery,/tracing my steps, all mistaken,/trusting to everything, praying it can be/that I am not forsaken,/I wait by the door, /wondering when you will come and keep me warm” (Perso in un labirinto di futuro mistero,/ ritrovando i miei passi, ogni cosa è confusa, /fidandomi di tutto, pregando che possa darsi/che io non venga abbandonato, /io attendo alla porta, /domandandomi quando verrai a tenermi caldo). Alla fine rimangono soltanto “sogni, speranze e promesse, frammenti estratti dal tempo” (Dreams, hopes and promises, fragments out of time).

Segue, con lo stesso mood, “Just Good Friends” (dall’album Patience), dove una relazione extraconiugale viene cesellata con tocchi che riprendono il tema della stanza: qui siamo in una stanza di albergo assurta a metafora di una delle tante stazioni del viaggio della vita umana:

Drawing back the curtains, /sluggish city daylight in the afternoon.../here's that special silence, /just before you walk out of the hotel room” (Tirando indietro le tende, / l’indolente luce diurna della città ristagno nel pomeriggio... / Ecco quel silenzio particolare, / poco prima che tu esca dalla camera d'albergo).

Segue la rarefatta “Nothing Comes” (da Everyone You Hold), dove la superficialità di certi rapporti umani viene messa alla berlina con un testo intessuto di un sapiente gioco di rime (“It's all plain sailing in the dry dock;/it's all downhill from here, in the rubble, taking stock.../with no sense of feeling nothing comes as a shock”).

Con voce vellutata e timidi arpeggi di pianoforte comincia la epica “Undone” (dal penultimo disco, Thin Air), che poi si libra sempre più stratosferica, fino a toccare vertici siderali di angoscia e desolazione: considerazioni sul tempo, sulla fragilità della vita, sul disfacimento di ciò che è caduco, sul senso della vita si intrecciano in un testo di apparente semplicità, che ci riporta proprio per questo ad alcune liriche di Montale ed Eliot:

"The envelopes I push against/so rapidly become/a wrap to keep me safe and warm/but soon enough I’ll be undone./And if, for instance, I had spent a lifetime/in the service of cleanliness and godliness/I’d still be washed up now".

Dallo stesso disco segue l’altrettanto cupa e sombreThe Mercy”: il pianoforte la introduce con un arpeggio a singhiozzo, su cui si innesta la scansione cantata dei versi che alludono anch’essi all’impotenza degli uomini, a cui non resta che cercare di soccorrere i propri fratelli, anche se spesso non sono capaci di rimanere saldi per le proprie decisioni: "What I once thought was everlasting/all of a sudden been and gone./It is finished, it is finished but mercy’s moving us along./What can you carry for your brother/when you can’t stand up on your own?"

La successiva “Amnesiac” (da X My Heart), suonata alla chitarra, è una dolente riflessione sulla perdita della memoria, ma intesa come una sorta di amnesia volontaria relativamente a ciò che si è deciso consapevolmente di dimenticare: "I can't think of anyone that I'd rather be with/but I don't know why you should want to stick here with me/when I can't even find what was on my mind/for all the holes punched in my memory:/it's a wasteland, and I'm terrified".

Gli inconfondibili arpeggi di “Time for a Change” (da pH7) scandiscono una riflessione sulla corrispondenza, come in un correlativo oggettivo, tra i cambiamenti interiori e le trasformazioni del mondo:
"The world was looking stretched and tight,/it's an overblown balloon./I've got the feeling something big/has got to happen soon".

Nei versi finali emerge perfino un personaggio dei fumetti Marvel, il Doctor Strange, ossia il signore delle arti mistiche, capace di esplorare le pieghe del tempo: "Oh, time for a change,/out of reach, out of range./Go and tell Doctor Strange/that it's time for a change".

Più sofferta la successiva “Central Hotel” (da Sitting Targets), dove il controllo di sé stessi viene paragonato ai circuiti interni e ai servizi di un’impersonale albergo di una grande metropoli (si noti il filo conduttore dell’hôtel, già presente nella prima canzone.

Un livello poetico (e filosofico) notevolmente più alto viene raggiunto in “Driven” (da Clutch), con una serie di sorprendenti riflessioni sul libero arbitrio. Notevole la considerazione per cui in qualche maniera siamo condizionati deterministicamente dal nostro stesso Io: non ci sono affermazioni che possano farci deviare dalla strada su cui siamo stati fissati. Ma a fissarci è stato il nostro stesso io, che ci ha pilotato: “I'm driven by my younger self into a corner./I remember dreaming the open road./I liked to think I had control but my hands on the wheel  were guided by some outside force as my future revealed”: qui viene espressa l’illusione del libero arbitrio in termini che ricordano Arthur Schopenhauer. Siamo, del resto, come voleva William James, una costellazione di io, presenti e passati: “We're driven by our older selves into what we become/and all our careful planning turns out strictly rule of thumb./We're driven by ourselves but dream we're free, on the open road”.

If I could” (da The Future Now) viene cantata in modo più “urlato”, esprimendo l’antitesi tra l’artista che deve necessariamente concedersi al pubblico con una dose di finzione (come aveva capito Denis Diderot nel Paradoxe sur le comédien) e la sincerità assoluta che bisognerebbe esprimere nei rapporti di coppia.

Ancora dal repertorio dei Van Der Graaf, ma con una scarnificazione che la riduce all’essenziale, proviene “Last Frame” (tratta dal disco The Quiet Zone, the Pleasure Dome): il fotografo entra nella camera oscura allo scopo apparente di sviluppare una fotografia, ma in realtà per rivivificare il ricordo di una relazione passata: ma non riesce in questa attualizzazione; a differenza che in Proust, il passato non diventa presente. È vero infatti che “When all memory is mellowed,/when the photograph is yellowed,/still it never lies”, ma la sorprendente conclusione è che rimane solo un negativo di quello che era la persona del passato: “But then I only have a negative of you”.

Dal più “abissale” disco della sua immensa produzione, il cupissimo e tenebrosissimo The Silent Corner and the Empy Stage, proviene la successiva “Modern”: visioni di città che sembrano al contempo uscire da Metropolis di Fritz Lang, Blade Runner di Ridley Scott e The Waste Land di Thomas Stearns Eliot si alternano con il mito di Atlantide e il simbolismo biblico incarnato in Gerico o Babilonia, quasi come nei Current 93 di David Tibet. La città diventa comunque un non luogo da incubo, in cui “all the citizens are contagiously insane”.

Dopo l’oscura “Faculty X” (da ph7), Hammill propone tre canzoni dal nuovo disco Consequences, eseguendole come un recital meramente accompagnato da pochi e sofferti accordi di pianoforte: “Close to Me”, “That Wasn't What I Said” e “Bravest Face”, in cui si passa dalla dolente constatazione dell’incomunicabilità tra le persone, che difficilmente cambieranno nel corso della vita (“Time and tide that’s enticed, none of that could change us”), a un titanismo di sapore quasi leopardiano, con versi che a noi italiani ricordano quelli de La ginestra (“Though I’m scared as hell/still I know it’s only natural/to feel so vulnerable and alone:/in extremis we’re on our own./It’s time to take my place/and hold my head up,/time to wear with grace/my bravest face”).

Il concerto si conclude con la ben più ritmata “Traintime” (da Patience): considerazioni tratte dalla fisica einsteiniana si intrecciano con i tradizionali problemi dell’incomunicabilità umana. Come il tempo sul treno appare più lento al passeggero che si trova sul marciapiede, così ogni messaggio veicolato con un telefono elettromagnetico dal passeggero sul treno raggiungerà quello sul marciapiede come se fosse un rumore di fondo di tonalità bassa, temporaneamente prolungato e difficilmente distinguibile dai disturbi atmosferici, dai fili ronzanti o dal rumore dello stesso treno; ogni tentativo di confinare nel silenzio il passaggio del tempo (shouting down the passage of time) si rivela inutile.

C’è ancora tempo per un bis: è la struggente “Refugees” (tratta dal remoto album vandergraaffiano The Least We Can Do is Wave to Each Other): la condizione umana come quella di perenni profughi è ben simboleggiata in versi come i seguenti: “We're refugees, carrying all we own/in brown bags, tied up with string”. Il futuro qui appare comunque più roseo, con l’allusione a un Ovest dove i colori cangiano dal grigio all’oro (“where the colours turn from grey to gold”). Ma si tratta comunque di speranze che tengono conto della fragilità della condizione umana, dove si passa dal nulla (nothing to do nor to say) al nessun luogo (nowhere to stay) al semplice “ora” (now we are alone), come una metafora del passaggio da un passato sicuro a un futuro incerto e indeterminato.

Pubblicato in: 
GN2 Anno V 12 novembre 2012
Scheda
Titolo completo: 

Peter Hammill in concerto
Venue: El Lokal, Zürich

Setlist

Piano Set 1
1.    My Room (Waiting for Wonderland)
(Van der Graaf Generator song)
2.    Just Good Friends
3.    Nothing Comes
4.    Undone
5.    The Mercy

Guitar Set

6.    Amnesiac
7.    Time for a Change
8.    Central Hotel
9.    Driven
10.    If I Could
11.    Last Frame
(Van der Graaf Generator song) (interruptet by police sirenes from outside)
12.    Modern

Piano Set 2

13.    Faculty X
14.    Close To Me
15.    That Wasn't What I Said
16.    Bravest Face
17.    Traintime

Encore:
18.    Refugees
(Van der Graaf Generator song)
 

Anno: 
2012
Voto: 
9