Van Der Graaf Generator. La consacrazione nel tempio della musica. Parte II

Articolo di: 
Teo Orlando
Van Der Graaf Generator

Pur non essendoci pause o interruzioni di sorta, la seconda parte del concerto del 4 aprile scorso in Sala Sinopoli all'Auditorium Parco della Musica di Roma  comincia idealmente con “Bunshō” (pezzo tratto anch’esso da A Grounding in Numbers). Si tratta di un brano con geometrie sonore squadrate e precise fino ai minimi particolari. La sezione ritmica è incalzante e inesorabile, con Guy Evans che sembra quasi assistito da un metronomo. Verso la fine del brano Hammill si esalta in un guizzo vocale notevole.

All’inizio il brano ricorda la struttura nervosa che caratterizza gli arpeggi chitarristici dell’album solista di Hammill Clutch (2002), ma pian piano si diversifica con una struttura variegata che rimanda al repertorio dei primi Van Der Graaf Generator. Anche il testo è particolarmente significativo: il titolo allude a un racconto dello scrittore giapponese Ryūnosuke Akutagawa, morto suicida nel 1927 e molto caro al regista Akira Kurosawa, “Bunshō” (“L’abilità dello scrittore”), incentrato sulle attività collaterali di un letterato che non riesce a ottenere il successo che si prefiggeva dalla scrittura (vicenda che ricorda molto la biografia dello scrittore austriaco Robert Musil).

È probabile che dietro queste riflessioni si nasconda la concezione della forma artistica dello stesso Hammill. Da un lato l’artista concentra tutti i suoi sforzi per realizzare la sua opera migliore, sottoponendola al pubblico; dall’altro teme di aver dato vita a un’opera confezionata con prolissità inutili e tristi cliché. Ma può benissimo accadere che siano proprio le opere apparentemente sciatte e meno curate a incontrare i gusti del pubblico. “What I thought was worthless,/merely repetition/somehow tugged the heartstrings,/brought them all to tears” (Ciò che pensavo fosse privo di valore, mera ripetizione/in qualche modo ha scosso le corde del cuore/strappandogli le lacrime).

Non è da escludere che, con una voluta ambiguità, il titolo del brano rimandi anche alle composizioni grafiche e geometriche dell’artista giapponese zen Kasumi Bunshō, caratterizzate da esplosioni di inchiostro su sfondi bianchi e da raffinati intarsi calligrafici.

Finito il brano, Hammill presenta il prossimo pezzo in quel suo italiano con un british flavour marcatissimo, dicendo che si tratta di "un brano vecchio, ma non troppo".

Poi cambia la chitarra e, inconfondibile, la sua voce emette i primi versi di “Childlike Faith In Childhood’s End” (da Still Life del 1976), a scandire un testo che è uno degli apici della sua complessità stilistica e poetica. La voce assume toni un pochino rauchi e la musica è leggermente rallentata rispetto alla versione originale. Il suono è più ruvido, perché si sente la mancanza dei fiati di David Jackson e di una tastiera più morbida, per quanto l’organo di Hugh Banton conferisca la dovuta solennità ai passaggi più metafisici; ma a compensare sopperisce in modo egregio l’acustica della Sala Sinopoli, che riesce ugualmente a proiettare il brano in una dimensione cosmica.

Già il titolo del brano è una sorta di conglomerato di fonti disparate: la “childlike faith” proviene verosimilmente da vari passi dell’epistolario di San Paolo, dove indica uno stadio esistenziale in cui si è come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi dottrina; la “childhood’s end” deriva invece dal titolo di un romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke, Childhood’s End, in cui viene descritta una sorta di invasione pacifica della terra da parte dei misteriosi Overlords  (i Superni, nella traduzione italiana, dal titolo fuorviante Le guide del tramonto), il cui arrivo comporta la fine di tutte le guerre, fino alla formazione di un governo mondiale e alla trasformazione del pianeta in un luogo quasi utopico, con il corollario della distruzione sistematica di ogni religione.

Accade però che alcuni decenni dopo l’invasione i bambini terrestri mostrano potenti abilità psichiche e si evolvono fino a trasfondersi in una sorta di mente collettiva, che diventa una forma trascendente di vita (qualcosa di simile era presente anche nella storia dell’umanità futura tracciata in Last and First Men dallo scrittore britannico Olaf Stapledon, stimatissimo da Jorges Luis Borges).

Il testo hammilliano qui appare fortemente influenzato dal romanzo di Clarke, ma va anche oltre, con “overtones in the lyric, intertwined with the idea of a glorious and distant future” (Dagmar Klein, Shouting Down the Passage of Time. The Spaces and Times of Peter Hammill, Libri Books on Demand, 2000, p. 101).

I primi versi (“Existence is a stage on which we pass,/a sleepwalk trick for mind and heart” - L’esistenza è un palcoscenico su cui passiamo,/un trucco sonnambulo per la mente e il cuore, tr. it. di Luca Fiaccavento e Marco Olivotto) contengono una chiara eco da William Shakespeare, in particolare dagli immortali versi di Come vi piace (As You Like It): "All the world's a stage,/And all the men and women merely players./They have their exits and their entrances;/And one man in his time plays many parts,/His acts being seven ages".  - Tutto il mondo è teatro. E gli uomini e le donne puri istrioni tutti: hanno le loro entrate e le loro uscite di scena, e ognuno fa diverse parti nella vita, che è un dramma in sette atti. II, 7, vv. 142-146, tr. it. di C. V. Lodovici).

L’incerto attore sul palcoscenico si trasforma qui nell’Io lirico che combatte fino a ritenere che esistere non voglia dire soltanto sopravvivere giorno per giorno, inseguiti dalla morte in una corsa incessante, e che ci debba essere qualcosa di più (“Somehow, there must be more”). L’Io si trova in una situazione di forte precarietà: da un lato la religione non sembra offrire più consolazioni, al punto che esso si trova intrappolato in una specie di tana (“entrenched inside my sett”), benché illuminata da una luce mondana. Dall’altra parte, anche la scienza non offre se non disillusioni, fino al punto da far rimpiangere l’epoca in cui l’intuire sensibile sovrastava ogni conoscenza razionale (“when more was felt than known”).

Non diversamente Robert Musil, nel romanzo Der Mann ohne Eigenschaften (L’uomo senza qualità), aveva osservato che “la mentalità scientifica è in fondo più religiosa di quella umanistica”: nonostante le disillusioni, lo scienziato sarebbe pronto più dell’inquieto letterato ad arrendersi di fronte all’esistenza del trascendente se questo gli si mostrasse in modo assolutamente verificabile.

La trascendenza del resto ritorna in un verso che sembra associarsi alle usuali credenze religiose: “In the beginning there was order and destiny” (In principio c’erano l’ordine e il destino). Si tratta di un mondo ordinato con un significato preciso racchiuso in quello che viene chiamato "il destino", inteso come fato preordinato. Ma subito dopo appare evidente che ogni religione organizzata, che ci obbliga a inginocchiarci, non consente un’autentica evoluzione spirituale. Le antiche religioni, con le loro Weltanschauungen messe in crisi dalla scienza, non possono più tenere l’umanità in uno stato di prostrazione. Più precisamente leggiamo nei versi:

But now that path has reached the border
and on our knees is no way to face the future, whatever it be.
Though the forces which hold us in place
last through eons in unruffled grace
we, too, wear the face of creation.
(Ma ora quel sentiero ha raggiunto il confine
e procedere in ginocchio non è un modo di affrontare il futuro, qualunque esso sia
Anche se le forze che ci tengono al nostro posto
Durano attraverso eoni di tempo in una grazia imperturbata,
anche noi portiamo il volto della creazione).

Le forze a cui si riferisce sono quelle della natura che ci tengono insieme, tramite le interazioni nucleari e gravitazionali. La fisica sostiene che non siano cambiate nel tempo, ovvero che siano rimaste identiche dal primo istante di vita dell’universo. Ecco perché perdurano in una grazia immobile (“unruffled grace”) per eoni (ossia periodi di tempo lunghissimi e indefiniti; dal greco αἰών -ῶνος, età, periodo. Il termine è caro anche a David Tibet che ha intitolato l’ultimo disco dei Current 93 HoneySuckle Æons).

Per dirla in termini kantiani, anche se l’umanità può essere soggetta, fenomenicamente, alle forze che ci tengono al nostro posto, tuttavia, noumenicamente, siamo dotati di quella scintilla spirituale da cui si è generato l’universo.

Continuando con i riferimenti scientifici, il verso “As anti-matter sucks and pulses periodically” (Mentre l’antimateria risucchia e pulsa periodicamente) rimanda sia al collasso finale dei buchi neri, sia alle emissioni delle pulsar, ossia i corpi celesti più antichi osservabili. Il riferimento all’antimateria rimanda alle teorie di Paul Dirac e al suo tentativo di conciliare la meccanica quantistica con la teoria della relatività ristretta.

Con un riferimento solo apparentemente incongruo, il testo parla poi del “germoglio che si apre” e del “fiore che muore” (“the bud unfolds, the bloom is dead”): in realtà i due eventi sono presentati come simultanei, perché il lasso di tempo accordato agli esseri viventi è così esiguo che deve quasi scomparire se comparato alla scala dell’intero universo, cosicché la vita sembra essere priva di senso, vista da quest’ottica. Tuttavia, la vita di un essere umano è diversa da quella degli altri viventi e sembra acquistare significato semplicemente attraverso il suo trascorrere, in attesa di sapere se diventeremo simili a Dio o ci ridurremo a polvere radioattiva. Un’apparente risposta sembrano fornirla questi versi:

Even if there is a heaven when we die,
endless bliss would be as meaningless as the lie
that always comes as answer to the question
“Why do we see through the eyes of creation?”
(Anche se ci attendesse un paradiso quando moriremo
la beatitudine eterna sarebbe altrettanto insensata della menzogna
che arriva sempre come risposta alla domanda
“Perché vediamo attraverso gli occhi della creazione?”).

Questi sono forse i versi più spinoziani (riferimento non peregrino, dato che Borges invocò il paragone con Baruch Spinoza recensendo Star Maker di Stapleton, chiaro antecedente del romanzo di Clarke): il fatto che noi vediamo attraverso gli occhi della creazione non vuol dire che vi sia un creatore, dato che prima la risposta implicita ("perché esiste un creatore") è stata definita una menzogna.

In realtà, “alla fine saremo liberi dai vincoli della creazione” (“And at last we are free of the bonds of creation”): dopo il collasso dell’universo la parte spirituale dell’umanità sopravviverà in qualche nuova forma. Infatti, mentre una mente umana singolarmente presa può somigliare a un grano di sabbia, l’accumulo di intelligenze che trapassa le generazioni non solo durerà per un tempo forse infinito, ma si servirà della stessa durata per rafforzare sé stesso: "We are the rocks which root the future – on us it grows!" (Noi siamo le rocce su cui il futuro pianterà le sue radici - cresce grazie a noi!).

Le nostre vite per quanto limitate sono il fondamento del futuro e sono così necessarie all’esistenza del cosmo. L’eternità della mente universale che rappresenta l’universo è però ben di più che la somma delle durate temporali delle singole menti: per dirla con Spinoza, l’eternità “non si può spiegare per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata fosse concepita senza principio e senza fine” (“per durationem, aut tempus explicari non potest, tametsi duratio principio, et fine carere concipiatur”, Ethica, I, Definizione viii).

Del resto, il verso finale ("In the death of mere Humans Life shall start!", Nella morte dei semplici Umani la Vita comincerà!), scandito musicalmente dalla dominante in mi maggiore, introduce una visione di un destino spinoziano e quasi panteistico che attenderà l’umanità, dove non ci sarà spazio per l’immortalità individuale in un tempo indefinito, ma solo per una soppressione infinita di ogni temporalità. A un certo punto, in coincidenza con i versi "Frightened in the silence, frightened, but thinking very hard,/let us make computations of the stars" (Spaventati nel silenzio, spaventati, ma pensando molto intensamente, facciamo calcoli sulla traiettoria delle stelle), la musica si interrompe e la voce rimane solitaria in un breve canto a cappella, a significare lo sgomento dell’io di fronte agli spazi immensi dell’universo e all’impossibilità di esplorarli da solo.

Childlike Faith in Childhood’s End” forma con la traccia eponima dell’album da cui proviene, Still Life, un dittico incomparabile, in cui Hammill ha deciso di combinare la visione futuribile di Clarke di un’immortalità sovraindividuale con quella di Borges di un’immortalità individuale che immobilizza gli uominii nella statica freddezza della mancanza di quel senso che solo la morte può dare alle vite umane.

Alla fine dell’esecuzione il pubblico tributa un applauso composto e commosso, come abbiamo visto di recente alla fine della Nona sinfonia di Gustav Mahler, con la quale, seppure in un contesto molto diverso, condivide l’afflato metafisico, con un testo non scevro di reminiscenze da grandissimi poeti come Thomas S. Eliot o Rainer M. Rilke.

Il brano successivo, “All Over the Place” (da A Grounding in Numbers), comincia con un arpeggio di piano à la Bach, eseguito magistralmente da Hugh Banton, che ha inciso una pregevole versione delle Variazioni Goldberg, interpretate su un organo costruito da lui stesso. È un brano che ben compendia le caratteristiche dell’ultimo album dei Van Der Graaf, dal ritmo frammentato alle soluzioni armoniche apparentemente semplici ma ordinatissime, dall’uso della voce che tocca toni quasi melodrammatici, per concludersi con una coda che vede le tastiere di nuovo in primo piano. Il testo narra presumibilmente di un viaggio intergalattico, con il protagonista che fra tracce insignificanti (“fractional clues”) e “sincronicità oblique” (“oblique synchronicities”: concetto mutuato da Carl Gustav Jung) rischia di perdere la propria identità.

Si passa a “Over the Hill” (da Trisector), con delicati arpeggi, poi una vera "trisezione" tra le tastiere e la batteria, fino a suoni jazz, con gran lavoro strumentale.

Il gran finale è affidato a un pezzo storico, ossia “Man-Erg” (dal leggendario disco Pawn Hearts, 1971): il titolo è una sorta di calembour, tra Man, uomo, ed Erg, unità di misura ormai in disuso dell’energia nel sistema CGS.

Il brano comincia con un debole arpeggio di piano; la progressione ritmica è più controllata rispetto all’originale, grazie anche alla batteria suonata con regolarità e senza alcuna frenesia, al punto che sembra in alcuni casi imitare strumenti a percussione con tastiera, come il vibrafono. Dopo la prima parte vocale, segue una progressione strumentale che ricorda molto alcune composizioni di Igor Stravinskij o di Béla Bartók.

Il testo è costruito su due coppie parallele di tre stanze; il primo verso di ogni stanza si riferisce a un’entità che abita lo spazio interno dell’Io narrante (simile all’Es di Sigmund Freud); si passa poi a descrivere come l’Io la percepisca e infine a descrivere l’esistenza autonoma e inquietante di tale entità. Questa entità può assumere le sembianze di un assassino ("The killer lives inside me" – L’assassino vive dentro di me), che riuscirà a immedesimarsi con l’Io narrante, fino a parlare la sua lingua e a lacerarne la mente ("he'll speak my words and slice my mind inside").

La mente del protagonista somiglia a una stanza abitata da due inquilini, uno dei quali è l’assassino, la parte negativa, come in molti racconti di Edgar Allan Poe: i suoi occhi guarderanno dall’interno, non dall’esterno, quello che accade nella stanza. Ma potrà anche assumere la figura di un angelo, che, come Rilke ci ha insegnato, può essere una creatura tremenda (“Ein jeder Engel ist schrecklich” – Ogni angelo è terribile, Elegie Duinesi, I, v. 7), perché in lui è già compiuta quella metamorfosi del visibile nell’invisibile che noi cerchiamo di perseguire.

Certo, gli angeli di Hammill sembrano di primo acchito più rassicuranti di quello di Rilke, visto che “their presence strokes and soothes the tempest in my mind” (la loro presenza calma e accarezza la tempesta nella mia mente), riuscendo a curare solo provvisoriamente le ferite dell’anima. E non a caso l’espressione tempest in my mind deriva da Shakespeare, King Lear, III, 4: “When the mind's free,/The body's delicate: the tempest in my mind/Doth from my senses take all feeling else/Save what beats there” (Quando la mente è libera,/il corpo è vulnerabile; ma la tempesta che ho io nella mente/rende i miei sensi incapaci di provare altra pena;/se non quella che mi martella dentro, tr. it. di Giorgio Melchiori).

Tant'è vero che subito dopo aggiunge: “But stalking in my cloisters hang the acolytes of gloom/and Death's Head throws his cloak into the corner of my room/and I am doomed” (Ma muovendosi sinistramente nella mia clausura si aggirano gli accoliti della disperazione/E la Testa della morte getta il suo mantello in un angolo della mia stanza/E il mio destino è segnato).

In questi versi di sapore baudelairiano, ci troviamo di fronte a una ricca simbologia: la Testa di morto allude al Death’s Head Hawkmoth, ossia il lepidottero testa di morto (usato anche nel racconto The Sphinx di Edgar Allan Poe e nel film Il silenzio degli innocenti di Jonathan Denne) e noto anche come Acherontia Atropos, dal nome della parca che nella mitologia greca recideva il filo della vita, decretando con il canto il destino futuro dell’uomo, come spiega Platone nel Decimo libro della Repubblica (617c).

Tuttavia, non tutto è consegnato alla disperazione, perché, mentre affiorano i ricordi di un cortile dove giocano i buffoni della giovinezza, un vecchio riparato da una tettoia rivelerà la verità ultima al protagonista (“And solemn, waiting Old Man in the gables of the roof:/he tells me truth”. – In solenne attesa sta il Vecchio nel timpano del tetto:/lui mi rivela la verità), ricordando per alcuni versi il Tiresia di The Waste Land di Thomas S. Eliot ("I Tiresias, old man with wrinkled dugs/Perceived the scene, and foretold the rest" – Io Tiresia, un vecchio con mammelle avvizzite, ho percepito la scena e ho predetto tutto il resto). Qui lo spazio riflette l’ordine temporale, rispecchiando sia l’esistenza umana nel suo corso, sia la topica dell’apparato psichico di stampo freudiano: nel cortile si addensano i ricordi della gioventù, nella clausura i momenti disperati di oggi, mentre sotto il tetto il vecchio dice la verità, in attesa del futuro.

Le ultime parole della canzone (dictators, saviours, refugees) sono accolte da un applauso scrosciante e da una standing ovation che induce il gruppo a ritornare, concedendo un solo bis, anch’esso recuperato dalla gloriosa discografia degli annii ’70.
Si tratta di “Scorched Earth” (da Godbluff, 1975): un crescendo finale con la batteria che poi si smorza, con i versi finali quasi posti a suggellare un percorso artistico e umano che dopo quarant’anni non rinnega nulla, ma guarda in avanti senza cullarsi in una sterile nostalgia:

Snow tracks are all that's left to be seen
of a man who entered the course of a dream,
claiming nothing but the life he’s known
- this, at least, has been his own.
(Le tracce della neve sono tutto ciò che rimane da vedere
di un uomo che è riuscito a inoltrarsi per la strada che conduce a un sogno,
senza reclamare nulla se non la vita che ha conosciuto
- Essa, almeno, è stata proprio sua).

Pubblicato in: 
GN49 Anno III 26 aprile 2011
Scheda
Titolo completo: 

Fondazione Musica per Roma

Van Der Graaf Generator in concerto

Lunedì 4 aprile 2011

Auditorium Parco della Musica - Sala Sinopoli, ore 21,00

Peter Hammill: piano, tastiere, chitarre e voce
Hugh Banton: organo, tastiere e bass pedals
Guy Evans: batteria.

Setlist:

1)    Interference Patterns (da Trisector)
2)    Mr. Sands (da A Grounding in Numbers)
3)    Your Time Starts Now (da A Grounding in Numbers)
4)    All That Before (da Trisector)
5)     Lifetime (da Trisector)
6)     Bunsho (da A Grounding in Numbers)
7)     Childlike Faith In Childhood's End (da Still Life)
8)    All Over the Place (da A Grounding in Numbers)
9)    Over the Hill (da Trisector)
10)   Man-Erg (da Pawn Hearts)

Encore:

11) Scorched Earth (da Godbluff)

Anno: 
2011
Voto: 
10