Van Der Graaf Generator. La consacrazione nel tempio della musica. Parte I

Articolo di: 
Teo Orlando
Van Der Graaf-Roma

Con una puntualità impressionante, più teutonica che anglosassone, alle 21,00 in punto del 4 aprile 2011 nella Sala Sinopoli dell'Auditorium Parco della Musica di Roma si materializzano quasi da un iperspazio al di là della soglia del buio le tre figure dei Van Der Graaf Generator, Peter Hammill, Guy Evans e Hugh Banton, per dar vita a un memorabile concerto a tre dimensioni, rivolto al presente e al futuro non meno che al passato. Si è trattato del primo dei concerti di una tournée italiana che ha portato il gruppo ad esibirsi anche a Milano, Vicenza e Cesena.

Probabilmente questa consacrazione di un gruppo rock progressive in uno dei massimi templi mondiali della musica classica non sarebbe dispiaciuta al dedicatario della Sala, il Maestro Giuseppe Sinopoli, direttore musicale dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia dal 1983 al 1987, prematuramente scomparso dieci anni fa durante un concerto a Berlino, il quale non solo non guardava con sguardo supercilioso le esperienze musicali non appartenenti all’ambito della cosiddetta “musica seria”, ma non aveva esitato più volte ad esprimere ad esempio la sua ammirazione per i Pink Floyd.

Del resto, sarebbe difficile sostenere che nel caso del gruppo britannico abbiamo a che fare con un tipo di musica distante da quella cosiddetta “colta”, viste le complesse tessiture sonore a cui ci hanno abituato i tre musicisti, uno dei quali, Hugh Banton, ha anche inciso un paio di dischi di musica classica, e l’altissimo livello delle liriche di Peter Hammill, che non temono il confronto non solo con altri testi della canzone d’autore (da Bob Dylan a Leonard Cohen, da David Tibet a Peter Sinfield), ma possono tranquillamente essere annoverate tra le migliori esperienze poetiche tra il XX e il XXI secolo in lingua inglese, con echi e somiglianze con Wystan Hugh Auden o Robert Graves, Philip Larkin e David Gascoyne o Wallace Stevens.

I tre sessantenni musicisti non riposano certo sugli allori, né hanno voluto più di tanto pescare nel repertorio dark progressive delle origini. Repertorio che tanto ha contribuito alla loro fama di band con una decisa attrazione per il mondo dell’esoterico e dell’occulto. Attrazione, in realtà, contemperata da un interesse deciso per tematiche scientifiche e fantascientifiche che Hammill aveva maturato nei suoi anni giovanili come studente del corso di “Liberal Studies in Science” all’Università di Manchester (buffa circostanza: se anziché dedicarsi al rock progressive Hammill avesse proseguito questi studi fino al dottorato, forse oggi avremmo un musicista in meno e un filosofo in più sulla scia dei tre ontologi analitici che proprio a Manchester fondarono il Seminar for Austro-German Philosophy, Peter Simons, Kevin Mulligan e Barry Smith, più o meno coetanei del leader dei Van Der Graaf).

Con il passare degli anni i testi hammilliani hanno sempre di più approfondito il rapporto tra le tematiche connesse con l’esistenza umana e i grandi interrogativi cosmici ed universali, adottando una prospettiva che potremmo definire “illuminista”, all’insegna della razionalità e del rigore anche musicale.

Oggi i brani di Hammill e dei Van Der Graaf concedono poco o nulla a visioni apocalittiche o visionarie, per le quali sarà opportuno rivolgersi ad altri indirizzi (ad esempio ai Current 93 o ai redivivi Comus). Da questo punto di vista, la loro ricostituzione nel 2005 non si è limitata a riprendere un discorso solo apparentemente interrotto più di vent’anni prima (perché la prolifica carriera solista di Hammill ha per certi versi continuato anche musicalmente alcuni temi della band), ma ha cercato una nuova interpretazione del concetto di progressive, per alcuni versi analoga a quella tentata dai King Crimson di Robert Fripp.

Per loro eseguire musica progressive non vuol dire solo oltrepassare i confini tra rock e jazz, musica classica ed elettronica, ma anche proporre un modello di sonorità riconoscibile, con una ricerca sperimentale all’insegna di un marchio di fabbrica inconfondibile, frutto di un paziente e analitico lavoro in studio, fatto di maestria e di grande talento virtuosistico, ma anche di tecnica elaborata e di sovraincisioni, dove si nota l’impasto di organo Hammond, di clavicembalo elettronico e Glockenspiel, di basso a 12 corde, di flauto, di Ashbory Bass e di mellotron.

Il primo brano conferma questa tesi: si tratta di “Interference Patterns”, tratto dal penultimo album, Trisector del 2008. Viene suonato con geometrica precisione e con un’intensità espressiva che supera la glaciale freddezza del disco in studio, in una serrata dialettica tra le tastiere, fino a toccare dissonanze in bilico tra il jazz (ricorda in particolare il “Blue Rondo à la Turk” di Dave Brubeck) e le sperimentazioni del minimalismo del secondo Novecento (piuttosto Steve Reich che Philip Glass).

Il testo si incentra sul rapporto tra le apparenti scelte umane e la fisica contemporanea. È un vero e proprio poemetto filosofico-scientifico sulla fisica quantistica, la teoria della relatività e il loro influsso sulle azioni dell’uomo e sulla nostra concezione della realtà. Come recita la seconda strofa, “Everything's formed from particles,/all that you see is a construction of waves./Hold onto both thoughts,/under general relativity/the cradle connected to the grave” (Ogni cosa è formata da particelle,/tutto ciò che si vede è una costruzione di onde/rimani aggrappato a entrambi i pensieri,/sotto la relatività generale/la culla si connette con la tomba).

Qui viene sostanzialmente evocato il cosiddetto principio di complementarità della meccanica quantistica, formulato da Niels Bohr nel 1927, secondo il quale i fotoni, le particelle quantiche e tutte le altre particelle elementari producono fenomeni di duplice tipo, corpuscolare e ondulatorio, con una contraddizione soltanto apparente, dato che i due aspetti non si manifestano mai contemporaneamente nella descrizione di uno stesso esperimento, ma appaiono come complementari l’uno rispetto all’altro. Negli esperimenti in cui prevalgono i caratteri ondulatori delle particelle quelli corpuscolari sono trascurabili e viceversa.

Nel testo del brano incontriamo poi altri “personaggi” del mondo della fisica contemporanea (l’etere luminoso, l’esperimento di Michelson e Morley, da cui partì Albert Einstein per la formulazione della teoria della relatività ristretta nel 1905, e l’esperimento della goccia d’olio di Robert Millikan). Peraltro, anche se “solo un pazzo penserebbe che noi siamo pronti ad affrontare con sicurezza tutto ciò verso cui il nostro futuro si dirige” (“Only a fool would think us/ready to face with certainty/all that our future's heading for”), la conclusione esprime un certo ottimismo verso l’indagine scientifica: “we'll find out what is below/the interference patterns" (noi scopriremo che cosa si nasconde sotto le figure di interferenza).

Il secondo brano, “Mr. Sands”, è tratto dall’ultimo album (A Grounding in Numbers): anche qui assistiamo a un duetto perfetto tra le due tastiere, mentre Guy Evans alla batteria è implacabile, sia per la varietà dinamica, sia per il tocco sofisticato, imprimendo al pezzo una potente progressione ritmica. Del resto, anche Hugh Banton alle tastiere svolge sostanzialmente un triplice lavoro (c’è quasi un’ossessione tridimensionale in questa formazione, derivante forse dalla predilezione per le simmetrie matematiche e la numerologia che caratterizza gli ultimi dischi), riuscendo a usare la mano sinistra per l’accompagnamento, la mano destra per gli assoli e le melodie, e la pedaliera per supplire alla mancanza del basso.

Il testo dipinge una sorta di alter ego disorientato di Peter Hammill medesimo, un certo Mr. Sands che vive in un mondo codificato da fantascienza di cui però non conosce la password e il cui aspetto reale non è accessibile: “Everything is in code/in a world we barely know/and the truth is only slowly revealed” (Ogni cosa è in codice/in un mondo che conosciamo appena,/mentre la verità ci viene rivelata solo lentamente). Ciononostante, continua a esplorarlo, rimanendo su una sorta di palcoscenico (lo stage di shakespeariana memoria, dato che il Grande Bardo di Stratford-upon-Avon è particolarmente caro ad Hammill), dove passiamo il nostro tempo “in sfumature differenti di riserva di ignoranza” (“pass our time in different shades of ignorant reserve”) e dove tutto sembra pronto ad esplodere: “Everything is in code/till the moment it explodes/we suspend belief, get ready to go/for the playout of the show” (Ogni cosa è in codice/fino al momento in cui esplode,/noi sospendiamo la credenza, ci prepariamo ad andare/per lo svolgimento dello spettacolo).

Anche il terzo brano, “Your Time Starts Now”, proviene da A Grounding in Numbers: le sonorità sono quelle più vicine al “vecchio” progressive, con un organo morbido dominante. Il testo della lirica qui entra in un regno di tristezza non rassegnata: “for all your patient fortitude you’re patently bereft/of clue, of hint, of notion,/of answers, even vague./You’re ploughing forward nonetheless/as though by simple doggedness/the far side’ll see you saved” (Con tutta la tua paziente forza d'animo, sei palesemente privo di ogni indizio, di suggerimenti, di nozioni,/di risposte, per quanto vaghe./Comunque stai procedendo/come se per semplice ostinazione/il luogo più remoto ti vedrà messo in salvo).

Con “All That Before” si torna a Trisector. Hammill sorprendentemente abbraccia la chitarra; l’inizio del brano è quasi hard rock, ma con uso decisamente in stile progressive delle tastiere. È notevole il lavoro dell’infaticabile Guy Evans, finché il brano non diventa quasi uno strumentale con un duetto ritmico tra chitarra e batteria. Infine il librarsi della voce accompagnata dalla tastiera segna una conclusione più in linea con lo spirito di questi ultimi anni.

Il testo riguarda il problema della memoria che si attenua con il passare dell’età, ma anche l’inesorabile oblio che riguarda di generazione in generazione l’intera specie umana e le sue azioni  (“I’m beginning to see everyhting we've been /is going to be forgotten” – Sto cominciando a notare che ogni cosa che siamo stati verrà progressivamente dimenticata). Anche se in una canzone dedicata a Primo Levi, “Primo on the Parapet”, Hammill ammoniva sull’esigenza di imparare a non dimenticare (“we must learn not to forget”).

Segue “Lifetime”, sempre da Trisector: Hammill si produce in una sorta di “recitar cantando”, interpretando un testo pervaso da una sottile malinconia con composta solennità. La musica, affidata soprattutto alle tastiere, è quella di un brano neo-progressive, che ricorda alcune sonorità dei Porcupine Tree, ma smorzate e attenuate. Nel testo si leggono parole sibilline, che additano al fatto che siamo noi stessi che spesso abbiamo costruito reti che hanno frenato le nostre aspirazioni e da cui solo lentamente potremo liberarci: "The river runs and very rapidly/becomes a torrent, sweeping us/towards our ricochet./It takes a lifetime to unravel all the threads/that have tied us in our webs of tourniquet" (Il fiume scorre e molto rapidamente/diventa un torrente, spazzandoci/mentre rimbalziamo./Ci vuole il tempo di una vita per dipanare tutti i fili/che ci hanno legato nelle nostre reti come se fossero lacci emostatici).

Pubblicato in: 
GN47 Anno III 11 aprile 2011
Scheda
Titolo completo: 

Fondazione Musica per Roma

Van Der Graaf Generator in concerto

Lunedì 4 aprile 2011

Auditorium Parco della Musica - Sala Sinopoli, ore 21,00

Peter Hammill: piano, tastiere, chitarre e voce
Hugh Banton: organo, tastiere e bass pedals
Guy Evans: batteria.

Setlist:

1)    Interference Patterns (da Trisector)
2)    Mr. Sands (da A Grounding in Numbers)
3)    Your Time Starts Now (da A Grounding in Numbers)
4)    All That Before (da Trisector)
5)     Lifetime (da Trisector)
6)     Bunsho (da A Grounding in Numbers)
7)     Childlike Faith In Childhood's End (da Still Life)
8)    All Over the Place (da A Grounding in Numbers)
9)    Over the Hill (da Trisector)
10)   Man-Erg (da Pawn Hearts)

Encore:

11) Scorched Earth (da Godbluff)

Anno: 
2011
Voto: 
10