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Philip Glass all'Auditorium Parco della Musica. Echi minimali per l'ineffabile
Con un’antologia retrospettiva che costituisce una sorta di Young Person’s Guide to Minimalism (per mutuare un celebre titolo di un’opera di Benjamin Britten, The Young Person's Guide to the Orchestra, ripreso anche da Leonard Bernstein per una famosa serie televisiva di didattica della musica e da Robert Fripp per l’antologia A Young Person's Guide to King Crimson), il compositore statunitense Philip Glass ha affrontato con un piccolo ensemble un’esigente e attenta platea romana, convenuta il 21 maggio 2010 nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Qualche minuto dopo le 21,00, il gruppo di musicisti entra discretamente in sala e attacca con “Dance Piece n. 9”. Si tratta di un brano tratto dall’opera In The Upper Room, commissionata dalla Twyla Tharp Dance Foundation nel 1986, lo stesso anno in cui festeggiò la prima mondiale al Ravenna Festival. Il brano appare molto ritmato con melodie quasi polifoniche e con i tipici moduli minimali usati in altre opere, come 1000 Airplanes on the Roof, Mishima o Songs from Liquid Days.
Si passa poi alle parti prima e seconda di Music in Twelve Parts, composizione risalente ai primi anni ’70. Con questi brani si affonda nel puro sperimentalismo. Tratti da un lavoro colossale (della durata di quasi sei ore), da Glass stesso definito un “catalogo di idee sulla struttura ritmica”, i brani non sono di facile fruizione.
Dopo 10 minuti ossessivi, si inseriscono sax e clarinetto. Immobilità ipnotica: è questo l’effetto che inizialmente si ottiene, benché poi improvvisamente la sequenza cambi con un altro tipo di ripetizione strutturale, più fluida, ma ugualmente ossessiva. Ci troviamo di fronte a una ripetizione apparentemente identica per innumerevoli volte della stessa frase, in realtà con variazioni quasi impercettibili; poi il ritmo accelera, sempre però sulla medesima tournure melodica.
E improvvisamente si inserisce un altro fraseggio, che fa quasi da contrappunto. Si crea così un effetto di ipnosi sospesa nella parte finale. È come se il tempo venisse immobilizzato: l’ascoltatore non può prevedere lo sviluppo perché in apparenza non c’è, cosicché non sa quando finisca il brano, potenzialmente infinito.
Come ha osservato lo stesso compositore, vengono usate due tecniche, che epitomizzano perfettamente l’essenza del minimalismo: quella del processo additivo e quella della struttura ciclica. Si prende una battuta di un certo numero di note che viene ripetuta indefinitamente; segue una battuta simile alla precedente con una nota in più, anch’essa ripetuta senza fine. La sensazione che se ne ricava può essere assimilata a quella del movimento “di ruote dentro altre ruote”, che incessantemente generano sempre nuova energia.
Talora però queste ruote incapsulate ricordano le famose “ruote che girano a vuoto” (leerlaufende Räder, un meccanismo free-wheeling, si potrebbe dire) di cui parlava il filosofo Ludwig Wittgenstein nelle sue Osservazioni filosofiche: si tratta di elementi linguistici inessenziali rispetto alla descrizione di un’esperienza attuale, ma che rimandano a un'esperienza possibile.
E del resto la musica in generale, e marcatamente quella di Glass, è un linguaggio che non esprime un senso e un significato precisi, come ha ben compreso Vladimir Jankélévitch ne La musica e l’ineffabile: per quanto gli studiosi si sforzino di analizzare le tecniche espresse nel linguaggio della musica, ogni pezzo musicale contiene un “certo-non-so-che” grazie al quale esso emoziona e riesce ad entrare nella mente dell’ascoltatore muovendo i suoi più intimi precordi, mentre un altro, che pure può usare le stesse tecniche, non riesce ad ottenere il medesimo effetto.
In “The Grid”, tratto dalla colonna sonora del film Koyaanisquatsi del regista Godfrey Reggio, tornano le sequenze timbriche e ritmiche ma in modo meno avviluppato. C’è maggiore cromatismo e varietà timbrica e la melodia è più evidente: si va verso un crescendo che sembra inarrestabile ma che alla fine si interrompe improvvisamente. Lo stesso titolo del film, tratto da un vocabolo degli indiani Hopi, allude alla vita tumultuosa e disordinata tipica della moderna civiltà tecnologica, alla quale però la stessa musica invita a guardare con benevolenza e ottimismo.
Dopo la pausa, si riprende con Music in Similar Motion, pezzo che risulta anch’esso molto sperimentale, con linee melodiche che si sovrappongono, la seconda di una quarta sopra a quella originale, la terza - fortemente scandita dalle percussioni - di una quarta sotto e così via. Il brano sembra somigliare a certe sequenze melodiche del gruppo tedesco di elettronica Tangerine Dream o a quelle di un altro grande maestro del minimalismo, Terry Riley (A Rainbow in Curved Air).
Con “Building” Glass attinge alla sua grande opera Einstein on the Beach, composta con Robert Wilson nel 1976. Il brano appare molto più fruibile: sul ritmo ossessivo si innesta un sax “ubriaco”, quasi jazz. I sassofoni poi si “corrispondono” e si aggiunge il clarinetto. Le sequenze minimali qui rappresentano una specie di “tappeto”, come un basso continuo che permette il libero e quasi improvvisato lavoro in assolo dei fiati.
Ma è forse l’esecuzione della seducente “Facades”, da Glassworks, a segnare il culmine emotivo della serata: si tratta di uno dei pezzi più melodici e malinconici, con un effetto misterioso sottolineato dal vibrato dei sassofoni tenore e soprano in virtuoso dialogo, oltre che dal clarinetto (ricorda da un lato certe melodie di Gustav Mahler o di Richard Strauss, etichettate con il termine tedesco geheimnisvoll, “misterioso”, dall’altro certi brani del progressive, come “Prelude: Song of the Gulls” da Islands dei King Crimson).
L’ultimo brano, “Act III” da The Photographer, cerca di rendere musicalmente le “immagini in movimento” del fotografo Eadweard Muybridge (tema caro anche al filosofo francese Gilles Deleuze): il tema si interrompe improvvisamente, ma poi si ferma ed improvvisamente il climax quasi si distende, con i fiati che diventano sempre più importanti.
C’è ancora spazio per un bis: “Spaceship” da Einstein on the Beach, che dopo una sequenza di flauto quasi cantato conclude con scale tonali di piano che ricordano quelle delle sonate per piano del ciclo di Metamorphosis.