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Robert Fripp & Theo Travis a Roma. La musica del silenzio fra tempo ed eternità
Il 14 novembre del 2010 nell’insolita location della Chiesa Evangelica Metodista di Roma abbiamo assistito a uno dei cinque concerti romani della coppia costituita da Robert Fripp e Theo Travis: il concerto si è svolto nello spazio dilatato che solo può offrire una chiesa o una cattedrale, esaltando la suggestività e l’atmosfera quasi ieratica che promanava dalla loro performance, avvenuta nel corso di un tour che ha condotto i due artisti in varie venues europee, in Italia, Spagna e Regno Unito.
Fripp, fondatore e leader delle varie incarnazioni dei King Crimson, forse il più creativo chitarrista vivente che a 64 anni ancora ama esplorare nuovi sentieri di ricerca sonora, ha suonato una particolare chitarra elettrica collegata con soundscapes e altri strumenti elettronici. Travis, giovane polistrumentista e sessionman con Cipher, Soft Machine Legacy, David Sylvian, Porcupine Tree e Gong, ha alternato il flauto traverso al sassofono soprano. Il risultato complessivo testimonia di un eclettismo elevato, oscillando tra jazz stile ECM, fusion, minimalismo, ambient music e la sperimentazione elettronica più spinta, con incursioni in varie aree che andavano dal progressive (prevedibile data la formazione e la provenienza dei musicisti) alla dodecafonia.
Prima del concerto quattro personaggi, appartenenti verosimilmente allo staff dei due musicisti, hanno invitato il pubblico, con molto fair play e in quattro lingue diverse - tedesco, francese, inglese ed italiano -, ad astenersi da riprese, foto e registrazioni di qualsiasi sorta. Dopo il singolare comunicato, i quattro ragazzi si sono esibiti in una sorta di mini-coro a cappella (che riecheggia quello contenuto in “The King Crimson Barber Shop”, incluso nel disco Three of a Perfect Pair dei King Crimson), ribadendo il loro messaggio in questo modo un po’ eccentrico.
Direttamente dalla sagrestia fa il suo ingresso Fripp, austero, silenzioso e “armato” di chitarra, con i capelli bianchi cortissimi e quegli occhiali rotondi che lo rendono sempre più simile al filosofo tedesco Walter Benjamin: è abbigliato con studiata semplicità, nonostante la giacca di pelle nera. È subito seguito da Travis, che arriva con il sax soprano, quasi simulando una processione, dall’unica navata rettangolare, tipica della Chiesa metodista, contorniata dalle decorazioni parietali e dalle vetrate dovute a Paolo Paschetto, che le realizzò a partire dal 1924.
Fripp, dopo essersi brevemente voltato verso il tabernacolo e aver forse recitato una preghiera, regola i soundscapes o “paesaggi sonori” collegati a un impianto quadrifonico (che compongono un’apparecchiatura da lui spesso ribattezzata ironicamente Lunar Module. Si tratta di una versione con delays digitali e perfezionata delle Frippertronics, elaborate insieme con Brian Eno, consistenti in una tecnica strumentale che combina dei nastri sovraincisi mediante registratori Revox con una chitarra elettrica), ricevendo l’applauso del pubblico, circa 200 persone, quasi tutte appassionate ed esperte di progressive, avanguardia e jazz, e che ascolteranno il concerto in una sorta di estasi religiosa, così come si prende parte a un rito officiato da sacerdoti di un culto elitario.
A questo punto comincia a prendere vita un’ora e un quarto di musica (sulla falsariga del Live at Coventry Cathedral) dove brani elaborati (alcuni provenienti dal disco in studio Thread, altri inediti) si alternano ad improvvisazioni e variazioni su temi ben noti ai conoscitori della produzione di Fripp & soci, come “Moonchild”, risalente nientemeno che al primo mitico disco del Re Cremisi (In the Court of the Crimson King), e "Starless", risalente al disco Red del 1974 e da poco eseguita anche alla Prog Exhibition di Roma da John Wetton con il Banco: ma i pezzi noti subiscono anch’essi il trattamento delle soundscapes di Fripp. Travis invece si serve di strumenti più tradizionali, il flauto traverso e il sax soprano, ma anch’essi filtrati e manipolati con vari effetti a loop, che creano una sorta di straniamento ipnotico, tanto più che lui e Fripp si alternano ad invitarsi a cominciare l’improvvisazione, con un gioco di rifiuti e di ricambi, in mirabile sinergia, dove Fripp appare riflessivo e insinuante ad un tempo: non a caso per lui la musica è una sorta di nourishment for the soul, un nutrimento per l’anima che si alimenta soprattutto nell’esecuzione dal vivo.
Il tema del primo brano è tratto da “The Power To Believe”, dal disco omonimo dei King Crimson del 2003. Travis comincia con il flauto traverso, a cui fa da pendant una sorta di scampanellio creato dai soundscapes elettronici; la melodia del flauto si dipana con tocchi minimalisti, con la musica che avanza cambiando impercettibilmente, in un’atmosfera molto eterea. Poi vira con echi lamentosi della chitarra elettrica, ma sempre soffusa. Infine si smorza quasi morendo. Segue una serie di suoni elettronici distorti, e pian piano rientra il flauto accennando melodie sincopate e quasi soffocate, ricordando talora Claude Debussy e talora Arnold Schönberg. L’atonalità si alterna a tracce melodiche, con effetti che vanno a toccare i confini di una sorta di musica sacra del XXI secolo.
Nel secondo brano, “Pastorale” (dal CD Thread), veniamo immersi in un’atmosfera impalpabile, dove le modulazioni chitarristiche abbinate ai soundscapes creano intarsi sonori simili a quelli che Fripp aveva elaborato con Brian Eno in dischi come Evening Star o No Pussyfooting. Poi si aggiunge il flauto, che intona una melodia più pacata, dal sapore classicheggiante e quasi “sognante”.
Il terzo brano comincia con un semi-arpeggio di chitarra, pizzicata a imitare il Glockenspiel (effetto che ricorda l’uso di questo strumento da un lato nel Flauto magico di Mozart, dall’altro in “Drumming” di Steve Reich e in “Little Wing” di Jimi Hendrix). Si sente improvvisamente il tema di “Moonchild”, brano del 1969 che nella parte strumentale era già estremamente rarefatto e free form, e che qui aumenta tali caratteristiche: appare diversa rispetto al Live at Coventry Cathedral, risultando più lunga e con un’improvvisazione maggiormente profilata, con contrappunto di Travis al flauto. Poi si procede verso un quasi assolo, con il flauto che accompagna dolcemente i suoni elettronici e che intona una melodia triste e malinconica. Di lì a poco, la chitarra riemerge in primo piano, ma più distorta e nervosa.
Nel quarto brano, “Blue Calm”, Travis passa al sax soprano, inizialmente improvvisando mentre Fripp accompagna con la sola chitarra, abbandonando per un attimo le soundscapes. Poi, sovrapposto alle consuete soundscapes, Travis distilla una melodia à la Jan Garbarek: si tratta quasi di un pezzo solista, con echi riconoscibili dal freddo jazz scandinavo. I musicisti danno talvolta l’impressione di essere due solisti casualmente coesistenti.
Il brano successivo, “Let’s Begin”, viene prima introdotto da una serie di suoni elettronici e, in rapida successione, da veloci arpeggi di chitarra. A questo punto, Travis si inserisce con il flauto, eseguendo brevi assoli che talora coprono e talora sono coperti dalle soundscapes. Poi queste ultime sembrano suggerire un’orchestra sinfonica che si produce in un pianissimo, fino a ricordare certi passaggi di Richard Strauss o di Gustav Mahler. Travis passa al sax ed emette suoni glaciali, ben interfacciati con le soundscapes. Poi la chitarra intona una melodia che ricorda “Starless”, l’epitome della maniera dei King Crimson di interpretare il progressive. Ma si tratta solo di pochi secondi, perché poi la melodia evolve diversamente, con il flauto che assume il ruolo di comprimario. Ma alla fine del brano tornano le note celeberrime di “Starless”: nel magma sonoro che avvolgeva progressivamente l’uditorio, queste note sono apparse, paradossalmente, come uno squarcio familiare e noto che si faceva largo nel perturbante cielo senza stelle. Come “Moonchild”, era una sorta di ritorno all’origine, quasi al liquido amniotico. Del resto, il brano adombra la storia di un uomo che nasce in uno stato di incoscienza, percorre una strada ed acquista progressivamente la piena consapevolezza di sé stesso per poi ritornare allo stadio primordiale del tutto cosciente. Si tratta di una sorta di Bildungsroman o di Fenomenologia dello spirito epitomizzati in musica.
Il sesto brano, “Starlight”, è introdotto da un rapido arpeggio di chitarra a cui si sovrappone discreto il flauto di Travis. È un brano molto frastagliato che ci ricorda alcune passaggi di Larks’ Tongues in Aspic, il disco dei King Crimson debitore dei quartetti di Béla Bartók e delle composizioni di Stravinskij. Seguono suoni distorti di chitarra con un flauto che li insegue dissonante, creando così progressioni vertiginose su doppie scale ascendenti e discendenti.
Il settimo brano, “Duet For The End Of Time”, in cui sembra di udire a tratti il mellotron del crimsoniano In the Wake of Poseidon, già dal titolo rimanda al Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen (il tema del cui V movimento, "Louange à l'Éternité de Jésus", fu usato dai King Crimson proprio per la linea melodica principale di Starless). E in effetti, come nel brano del compositore francese, viene creato un effetto estatico attraverso la combinazione di moduli dissonanti e di lente variazioni affidate ai fiati. Analogamente a Messiaen, anche Fripp e Travis con questo brano sono alla ricerca di un modo per rendere ciò che è ineffabile, ossia il desiderio che il tempo si arresti e venga meno. Il brano deve comunicare il fatto che il tempo umano, che si snoda diacronicamente, scorra sulla superficie dell’immobilità dell’aión (αἰών), dell’eternità atemporale nella quale non vi è distinzione tra prima e dopo e neppure tra musica e silenzio.
Il concerto si conclude con la ripresa di “The Power To Believe”, dove Fripp spinge all’estremo la sua strumentazione elettronica, attraverso una serie di trasformazioni che rendono ormai irriconoscibile la matrice chitarristica dei suoni, fino a che non sembra di udire un suono di campane, che solennemente ci porta al congedo definitivo.
A questo punto, Travis si alza continuando a suonare il sassofono soprano mentre si incammina nella navata centrale verso l’uscita. Di lì a poco lo imita Fripp, che non accenna ad alcun commento né punta il suo sguardo sul pubblico, ma non prima di aver regolato gli impianti elettronici in modo che diffondano la registrazione dell’ultimo brano simulando una sorta di spirale infinita.
Nonostante qualche timida richiesta, i due musicisti alla fine sono andati via senza concedere bis, ma Theo Travis si è brevemente intrattenuto con il pubblico, concedendo autografi sui CD (a me personalmente, che sono quasi suo omonimo, ha pure detto di essere nato lo stesso giorno di Mahler, ossia il 7 luglio, dato che gli avevo comunicato di essere appena stato anche al concerto dell'Auditorium dove era in programma la Quinta sinfonia del compositore boemo diretta da Valery Gergiev), mentre Re Fripp, disdegnoso e altero al pari di Keith Jarrett o di Arturo Benedetti Michelangeli, non è più riapparso. E anche questo faceva, per così dire, parte dello spettacolo, che quindi a conti fatti valeva la pena di vedere ed ascoltare.
Come sigillo, si potrebbe citare una frase di Fripp, che ben esprime la sua poetica musicale e che ricorda analoghe affermazioni del filosofo Vladimir Jankélévitch: “Music is the cup which holds the wine of silence. Sound is that cup, but empty. Noise is that cup, but broken” (“La musica è la coppa che contiene il vino del silenzio. Il suono è quella coppa, ma vuota. Il rumore è quella coppa, ma spezzata”).