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Pelléas et Mélisande all'Opera di Roma. Interludi di chiarore lunare
Dal 2 al 9 ottobre l’Opera di Roma si è tuffata nel ‘900, quasi nello stesso momento in cui apre una grande mostra sul Surrealismo ed il Dada al Vittoriano che, a stretto giro del simbolismo – e con alcuni artisti come Moreau, Delville, Dalì, Klinger ed Ernst fra gli altri, che vanno a braccetto con l’uno e gli altri movimenti (cfr. Symbolism di Micheal Gibson per Taschen) -, di cui si tinge l’opera di Maeterlink, musicata eccezionalmente da Claude Debussy, Pelléas et Mélisande (1902).
L’objet mysterieux di Anish Kapoor fa il paio con l’Objet indestructible di Man Ray, che poi è un metronomo con la fotografia di un occhio: su questa sorta di orecchio e occhio invisibile ai protagonisti si distribuiscono tutte le scene. Dalla foresta dove perde la corona Mélisande, fino alla partenza finale, metaforica, attraverso l’occhio di lei che guarda fuori dalla finestra prima di spirare.
La musica di Debussy è una eco del mare, del mare turbolento e felice degli schizzi sinfonici più tardi di La Mer (1903): il primo, De l’aube à midi sur la mer che tappezza la seconda perdita di Mélisande (Nathalie Manfrino), la fede dello sposo Golaud (Marc Barrard), mentre è in compagnia di Pelléas (Massimiliano Gagliardo), fratello dello sposo, sulla sponda di una fontana.
La Mer o la mère, è qui la stessa cosa: l’origine di tutto e l’afflato del nulla dove si perde il loro amore inconsapevole ed impervio dall’inizio. In questo suggerire appena accennato Gianluigi Gelmetti è prodigo di destrezza: senza mai eccedere sottolinea la drammaticità delle scene – soprattutto quando vengono sorpresi nel loro unico atto d’amore (Atto IV scena IV) ed ancora prima nella scena con il piccolo Yniold (Valérie Gabail, Atto IV), figlio del matrimonio precedente di Golaud.
Le voci ed il climax, oltre che nelle scene finali, ottengono un rilievo culminante nella scena dei capelli (Atto III – scena I), quando Mélisande li scioglie alla finestra e abbraccia Pelléas con la loro cascata dalla finestra della torre dove si trova. E’ allora che questa grande cartilagine che si trasforma da nave a castello, quello di Allemonde (tutto il mondo ovvero nessun mondo quindi ovunque?) dove Arkel (Enzo Capuano) e Geneviève (Marta Moretto), anziani genitori di Golaud e Pelléas, regnano, sembra acquistare finalmente la forma di una casa, accogliente seppur pericolosa per i due giovani. Finora, secondo la regia di Pierre Audi e le luci di Jean Kalman, era piuttosto soltanto un luogo oscuro, dove foreste e segni si incrociavano ininterrottamente, senza dare spiegazioni di ciò che sono.
Gli Interludi di Debussy spiegano e sostanziano anche il non detto, quell’oscura parafrasi della realtà che sostiene tutto il dramma rendendo più partecipe il pubblico. Procedendo da una scena all’altra senza una vera scissione ma evocando un percorso già indicato, gli Interludi orchestrali chiariscono anche i motivi ed i timbri di ciascun personaggio: il motivo della foresta, grave e scuro quanto quello di Golaud a cui qui si lega, per primitività del personaggio e per colori, in contrapposizione con il bianco rifulgente di luce di Mélisande, sottolineato dagli eterei flauti e che il Fa diesis maggiore, simbolo della luce, fa emergere in impalpabili bagliori.
Pelléas et Mèlisande rimane in ogni caso un dramma di un’intensità tragica abnorme la cui essenza rimane sconosciuta: qui nulla rinvia a fatti veri e propri, la quotidianità ne è esclusa, soltanto le suggestioni creano la materia prima per lo svolgimento dell’azione. Le parole sono come la grotta ai confini del mare, sono composte di “tenebre azzurre” come dice Pelléas a Mélisande a proposito della grotta dove, mentendo a Golaud, ha detto di aver perduto la fede nuziale. Quella grotta che s’illumina di chiarore, dove le Sirènes di Debussy vanno a riposare, nei Nocturnes “allumés par la clarté de la lune”.