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Prog Exhibition al Teatro Tendastrisce. L'immaginifica ondata progressive
Per due giorni Roma si è tinta di progressive, celebrando in un evento spettacolare, la Prog Exhibition, dal 5 al 6 novembre 2010 al Teatro Tendastrisce, la cosiddetta “musica immaginifica” degli anni ’70, con la presenza di gruppi storici italiani, di giovani gruppi emergenti e di illustri guest stars straniere che si sono esibite fianco a fianco con gli artisti del nostro paese.
Il primo giorno si sono esibiti la Premiata Forneria Marconi con Ian Anderson dei Jethro Tull, Le Orme con David Cross dei King Crimson, The Trip, Sinestesia e Maschera di Cera. Il secondo giorno è stato il turno del Banco Del Mutuo Soccorso con John Wetton (King Crimson & Asia), degli Osanna con Gianni Leone (Balletto di Bronzo) e David Jackson (Van Der Graaf Generator), della Nuova Raccomandata con Ricevuta di Ritorno con Thijs Van Leer (Focus), della Periferia del Mondo e degli Abash.
Questo revival del progressive italiano non è solo un’operazione nostalgia, come ha giustamente detto Vittorio Nocenzi del Banco . Il progressive è stato avanguardia e ora è diventato quasi una sorta di musica classica popolare del Novecento, imponendosi al pubblico più avveduto in un’epoca in cui si confeziona un'opera piuttosto per apparire che per essere. Come ha giustamente scritto Franco Fabbri, “il progressive italiano è solo in parte un prodotto di imitazione”: per quanto si senta l’influenza delle grandi formazioni inglesi, è proprio con ilprogressive che la maggior parte dei gruppi, a differenza di quelli beat, si presenta con composizioni proprie, contrassegnate dall’uso dei metri additivi, dal virtuosismo individuale e collettivo, e da una poetica eclettica tradotta spesso in brani lunghi e complessi.
Noi abbiamo seguito in particolare la seconda giornata, aperta dal gruppo romano Periferia del Mondo, una sorta di side project del Banco del Mutuo Soccorso, perché fondato e guidato dal flautista di quest’ultimo, Alessandro Papotti, che combina il progressive con atmosfere orientali. Simbiosi che viene ripetuta dagli Abash, gruppo che fonde il prog con la musica etno-popolare salentina, i ritmi tribali e ossessivi dell’Africa e le melodie orientali, il tutto ben tradotto nelle prestazioni vocaliche di Anna Rita Luceri.
Dopo questo “riscaldamento”, sale sul palco la Nuova Raccomandata Con Ricevuta Di Ritorno: si tratta di una reunion dopo trentasei anni, ma non non abbiamo a che fare con un progetto di mera circostanza, perché la band presenta il nuovo album Il pittore volante, dal nome emblematico, visto che il cantante Luciano Regoli è anche pittore (un po’ come il leader dei Current 93, David Tibet, che alterna la sua attività di musicista progressive-apocalittico con quella di pittore visionario).
Si comincia con “Il cambiamento” da Il pittore volante, buon brano progressive che ricorda atmosfere seventies, per quanto opportunamente rinfrescate. È la storia del cambiamento interiore di un uomo e della sua ricerca volta a una sorta di rinascita spirituale. Il secondo brano, “Le anime”, denuncia sonorità molto rock, quasi epiche. È un ricordo poetico della strada dove vive Regoli all’Isola d’Elba, ai tempi in cui vivevano personaggi ora diventati ombre.
A sorpresa entra Claudio Simonetti (storico fondatore dei Goblin e prima ancora di una formazione prog chiamata Il ritratto di Dorian Gray il cui cantante era lo stesso Luciano Regoli) che è tra i collaboratori del disco e che presenta alle tastiere una specie di medley dei suoi brani più noti, da “Profondo Rosso” a “Suspiria”.
“L’uomo nuovo”, sempre dall’ultimo album, affronta il tema dell’uomo di fronte alle sue paure che lo inducono a una migliore comprensione di sé stesso. Lo stile ricorda la Premiata Forneria Marconi e Le Orme, soprattutto i moduli espressivi dei loro primi dischi, grazie anche al buon lavoro del chitarrista Massimo Castellani.
Subito dopo repentinamente e accompagnato da un fragoroso applauso fa il suo ingresso Thijs Van Leer, leader della storica band olandese dei Focus. Van Leer introduce “House of the King” con un assolo di flauto che ricorda moltissimo il coetaneo Ian Anderson dei Jethro Tull, benché si ispiri maggiormente a modelli classicheggianti e barocchi. Dopo una sorta di monologo con battute e borborigmi vari, il flauto evolve verso sonorità folk progressive; infine passa alle tastiere che accompagnate dalla chitarra fanno apparire il brano più rock, con ritmo incalzante.
L’esibizione si conclude con “Un palco di marionette”, tratto dal disco d’esordio della band, Per un mondo di cristallo: introduce sempre Van Leer con il flauto, poi il brano evolve verso uno stile che ricorda da un lato i primi Genesis di Trespass e dall’altro gruppi italiani come i Newtrolls. E infine rifluisce calmo non prima di un intermezzo alla Jethro Tull; il finale è un assolo strumentale efficacissimo, al punto da ricordare i King Crimson di Larks’ Tongues in Aspic.
Dopo una breve pausa, è il turno degli Osanna, gruppo partenopeo che unisce il progressive italiano a sonorità mediterranee. Ad accompagnarli è un’autentica leggenda vivente: David Jackson, ex membro dei Van Der Graaf Generator (e presente nella reunion del gruppo voluta dal fondatore Peter Hammill nel 2005, ma poi fuoriuscitone), polistrumentista efficacissimo con ogni genere di strumenti a fiato.
Si comincia con un pezzo a metà strada tra il progressive e la musica etnica, che esplode quando David Jackson entra con la sua coppia di sassofoni, a cui fa da controcanto un efficace assolo di chitarra. “L’uomo”, secondo pezzo della performance della band (dal disco omonimo, poi riarrangiato in Prog Family), risulta molto arioso, con Jackson che suona il flauto e alcuni riff alla Led Zeppelin a sottolineare il canto del frontman Lino Vairetti con versi forse ingenuamente pacifisti (“Si vive e si muore nel fango e l'orrore/si cercano invano momenti d'amore”).
Dopo un pezzo cantato in inglese (“My Mind Flies”), segue “Oro Caldo” (da Palepoli), dove Jackson fa letteralmente il diavolo a quattro suonando prima separatamente il sassofono soprano e quello contralto, e poi congiuntamente il sassofono contralto e quello tenore.
A metà show, fa il suo ingresso trionfale il tastierista Gianni Leone, componente di un’altra band storica del progressive italiano: Il Balletto di Bronzo. Si siede alle tastiere e fa partire "Everybody’s Gonna See You Die" (da L’uomo), con una sorta di introduzione sperimentale, quasi free form. Segue un pezzo che ricorda lo stile degli Area (ovviamente senza le performances vocali di Demetrio Stratos). Ma il tripudio scoppia quando David Jackson intona “Theme One” (scritta da George Martin e compresa nell’edizione americana di Pawn Hearts dei Van Der Graaf Generator). Jackson anche qui usa il doppio sassofono per conferire al brano un tono quasi di marcia, con il pubblico che gli fa eco anche battendo le mani.
Gli Osanna concludono con un medley incalzante e trascinante, che unisce pezzi della loro produzione a tradizionali napoletani totalmente stravolti.
Segue un breve intermezzo in cui viene presentata l’autobiografia di Bill Bruford (pubblicata dalle edizione Aereostella con il titolo Bill Bruford. Autobiografia alla batteria. Yes, King Crimson, Earthworks e non solo), forse il più versatile batterista progressive, già membro degli Yes, dei King Crimson e di numerosi altri gruppi. Da poco, sottolinea la presentatrice, Bruford ha superato la sessantina, come del resto molti dei membri dei gruppi presenti, ma, come ha osservato Fernanda Pivano, “quando qualcuno ha un sogno da realizzare, rimane giovane per sempre”.
La degna conclusione della Prog Exhibition vede il ritorno sui palcoscenici romani del Banco del Mutuo Soccorso. Su un tappeto di tastiere soft si staglia la voce di Francesco Di Giacomo con “Nudo” (dal disco omonimo: “Prima o poi un pensiero arriverà a portarmi via/come un angelo nero mi confesserà che il cielo è un sasso./Siamo stati e saremo parole e gesti nel battito del cuore”.).
Di Giacomo improvvisa poi un breve monologo in stile quasi “gucciniano”, scusandosi per il fatto di avere un problema alle corde vocali che gli impedirà di esprimersi al meglio e sottolineando il valore anche politico della musica, che serve a tenere sempre desta l’attenzione su certi problemi.
Poi la sua voce stentorea intona “R. I. P. (Requiescant In Pace)”, dall’album d’esordio del gruppo (con il celebre salvadanaio in copertina), uno dei più grandiosi inni pacifisti mai scritti nell’ambito della canzone italiana d’autore (con versi celebri come: "ma di te resterà soltanto/il dolore, il pianto che tu hai regalato").
Si prosegue con “Cento mani e cento occhi”, dal leggendario concept album Darwin!, che il Banco aveva eseguito a Frascati per intero un anno fa. Il testo rappresenta un ideale ponte tra la preistoria e la contemporaneità: “gente che respira a tempo/uomini rinchiusi dentro scatole di pietra/dove non si sente il vento”. La tastiera di Nocenzi fa miracoli, passando da toni soft a moduli ritmici più sostenuti.
Segue uno strumentale molto elaborato, tra jazz, progressive e atmosfere mediterranee. Il gruppo dà al pezzo un flavour quasi “crimsoniano”, preannunciando l’ospite d’onore che di lì a poco farà il suo ingresso. La chitarra viene suonata quasi come uno strumento ad arco, alla maniera del post rock, ma con l'uso del pizzicato al posto dell’archetto. Torna Di Giacomo e intona “Canto di Primavera” (dal disco omonimo del 1979). Subito dopo, annuncia l’ospite internazionale, che è John Wetton, ex bassista dei King Crimson e leader degli Asia.
Le prime, inconfondibili note annunciano nientemeno che “Starless” dall’album Red dei King Crimson, che anticipa il metal progressive (1974): si tratta di 12 minuti di musica con vari momenti che ricompendiano la carriera dei King Crimson degli anni ’70. Comincia con gli accordi del mellotron, qui eseguiti da Vittorio Nocenzi con incredibile incisività, a cui si aggiungono la chitarra elettrica e un sassofono soprano, in uno stile che ricorda “Epitaph” da In the Court of the Crimson King. Segue un segmento vocale molto vibrato con la struttura convenzionale strofa-ritornello: i versi intonati (“Sundown dazzling day/Gold through my eyes/But my eyes turned within/Only see/Starless and bible black” – “Il tramonto del sole rende pallido il giorno/Oro attraverso i miei occhi/Ma i miei occhi protesi/vedono soltanto/il nero senza stelle della Bibbia”.) rimandano all'incipit del dramma Under Milk Wood di Dylan Thomas (“It is spring, moonless night in the small town, starless and bible-black” – “È una notte di primavera senza luna, nella piccola città, senza stelle e nera di bibbia”).
Curiosamente, anche Cormac McCarthy, nel suo capolavoro, il romanzo The Road, usa varie volte la metafora della notte e dell’oscurità senza stelle per rappresentare un’atmosfera di desolante disperazione (“The sparks rushed upward and died in the starless dark” – “le scintille sprizzavano in alto e morivano nell’oscurità senza stelle”; parole che riecheggiano anche i versi di Wystan Hugh Auden: “Starless are the nights of travel,/Bleak the winter wind;/Run with terror all before you/And regret behind” – “Senza stelle sono le notti di viaggio,/Triste il vento d'inverno;/Corri con tutto il terrore davanti a te/E il rimpianto alle tue spalle”, "Lady, Weeping At The Crossroads").
La sezione centrale del brano è un accumulo progressivo in 13/8, che ricorda "The Talking Drum" da Larks’ Tongues in Aspic. E qui Wetton usa al meglio il suo basso distorto, mentre la chitarra di Rodolfo Maltese fa quel che può per riprodurre gli effetti che Robert Fripp ha inserito in un ipnotico ostinato con intervalli dissonanti. La sezione finale comincia con una brusca transizione a un assolo di sassofono jazz, a cui si aggiungono poco dopo gli effetti delle chitarre distorte, del basso e della batteria suonata quasi con ritmo tribale, a ricordare la sezione più concitata di "21st Century Schizoid Man", dal primo mitico disco del Re Cremisi. Il brano termina con una breve, potente e travolgente ripresa della melodia di apertura, a suggellare quasi l’epilogo dell’irripetibile stagione del progressive della prima metà degli anni ’70.
Wetton si unisce ancora al Banco per eseguire “Non mi rompete” (da Io sono nato libero, del 1973), cantata coralmente e con effusione strumentale dei fiati a gran voce. Di Giacomo poi annuncia un brano che da “secoli” non veniva eseguito dal vivo, ossia “Canto nomade per un prigioniero politico” (sempre da Io sono nato libero), intonando poi versi di commovente intensità: “Almeno tu che puoi fuggi via canto nomade/questa cella è piena della mia disperazione,/tu che puoi non farti prendere”).
Si riprende poi Darwin!, con la “Danza dei grandi rettili”, eseguita quasi come un inno dalle tastiere di Nocenzi, con “La conquista della posizione eretta” e con un segmento da “L’evoluzione” (con versi quasi irriverenti: “Adamo è morto ormai e la mia genesi/non è di uomini ma di quadrumani”). Con questo brano il concerto si chiuderebbe, ma il pubblico invoca in una standing ovation il ritorno della band, che ancora concede due possenti strumentali, donando alla notte romana il ritorno del progressive in forma più che mai smagliante.