Supporta Gothic Network
56° Edizione del Festival dei Popoli. La memoria delle migrazioni e dell'arte
Uno sguardo alla memoria e uno alle migrazioni. Queste le dimensioni principali che hanno caratterizzato la 56° Edizione del Festival dei Popoli, il noto Festival Internazionale del Film Documentario accolto, dopo i giorni dedicati a Il Cinema Ritrovato, dal 27 novembre al 4 dicembre scorso, nel contesto della 50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze, conclusa domenica 13 dicembre.
Le sale cinematografiche fiorentine che hanno accolto gli eventi della lunga rassegna di cinema internazionale, tra cui lo Spazio Alfieri e il Cinema Odeon, hanno rappresentato ancora una volta la molteplicità di sguardi e di prospettive sull'attualità espressa dal Festival dei Popoli attraverso numerose iniziative.
In collaborazione con l'Institut Français di Firenze, l'Auditorium S. Apollonia, il Museo Novecento e Palazzo Strozzi, infatti, sono stati organizzate mostre correlate, workshop e incontri con gli autori, ed è stata rinnovata la collaborazione con MyMovies, già attiva da diversi anni, che ha dato la possibilità al pubblico di votare i film in concorso internazionale sulla piattaforma streaming, nella cui sala virtuale hanno trovato risonanza alcuni film in programma.
Quest'anno la selezione dei film del concorso internazionale, in cui un ampio spazio è stato destinato al tema dell'immigrazione, è stato arricchito da eventi speciali, con le proiezioni di lungometraggi quali Mr. Gaga, dedicato al coreografo ideatore del movimento di danza omonimo, Mr. Dynamite: the rise of James Brown, sulla carriera del musicista leggenda del blues e Listen to me Marlon, montaggio di fotografie e filmati familiari con le registrazioni audio realizzate in prima persona da Marlon Brando, corrispondente ad un vero e proprio diario personale dell'anti-divo hollywoodiano.
Il Festival ha previsto inoltre, una intera sezione – chiamata Alì nella città: derive e approdi di migranti contemporanei – dedicata alla controversa realtà vissuta dall'incalcolabile numero di migranti che si dirigono in Europa e, come gli anni precedenti, due retrospettive ad importanti documentaristi del panorama europeo: Mary Jiménez, regista peruviana che vive in Belgio e Wojciech Staroń, regista e direttore della fotografia polacco.
A Festival ormai terminato, è interessante riportare la mente ad alcune proiezioni in particolare del concorso internazionale, fermi restando i premi assegnati, per ciascuna delle tre categorie: per la sezione lungometraggi a O futebol, diretto dal brasiliano Sergio Oksman, per la sezione mediometraggi a Une partie de nous s’est endormie, della regista francese Marie Moreau, per la sezione cortometraggi a A festa e os cães, del brasiliano Leonardo Mouramateus.
Sul tema della memoria, interessante il documentario di Andreas Fontana, intitolato Pedro M, 1981, incentrato sulla ricerca di una giovane, della quale lo spettatore può udire solo la voce over, intorno al proprio padre, mai conosciuto a causa del lavoro che ha tenuto l'uomo in Spagna tutta la vita, lontano dalla famiglia. Questa misteriosa figura, Pedro Martin, per la figlia non appare che «uno sconosciuto, uno straniero, un cameramen della televisione spagnola», reso ancora più enigmatico perché le uniche immagini che lo riguardano sono legate a quel colpo di stato avvenuto il 23 febbraio 1981 con l'eclatante assalto al Congresso dei Deputati, subito ripreso dalle emittenti spagnole proprio grazie a persone come Martin, presenti in aula in quel momento. La ricerca della figura paterna, topos ormai ricorrente nelle narrazioni di ogni tempo, appare collocata in una dimensione al tempo stesso profondamente legata alla storia e astorica, proprio per l'inafferrabilità di questa persona, che si è occupata per tutta la vita di produrre le immagini della memoria visiva di un paese.
Il film di Irene Dionisio, intitolato Sponde. Nel sicuro sole del nord, affronta il tema delle migrazioni e della loro dimensione tragica e luttuosa attraverso il punto di vista di Vincenzo, un abitante di Lampedusa custode del cimitero pubblico che accoglie le spoglie dei migranti restituite dal mare alle spiagge dell'isola. Come evidenziano le immagini del film, infatti, questo luogo rappresenta a tutti gli effetti le contraddizioni profonde insite nelle diverse declinazioni in cui può essere vissuta una terra che si affaccia sul mare: da un lato sono visibili le coste in cui ormeggiano le imbarcazioni di privati baciate dal sole e dall'altro le rive, che per i migranti significano la speranza di un futuro migliore, ma molto spesso finiscono per essere approdo di morte. Le sequenze sottomarine, di grande risonanza evocativa, nel cui ritmo oscillatorio e continuo fluttuano vari oggetti appartenuti a figure di passaggio, si alternano al racconto in prima persona di Vincenzo, che da anni si occupa di recuperare dalla riva beni e corpi senza nome dando alle spoglie una povera sepoltura. La missione portata avanti dall'uomo, la cui gravosità non fa che essere aumentata dal numero di sbarchi in aumento, è però condivisa da Mohsen Lidhabi, che in Tunisia si occupa da anni di conservare gli effetti personali delle innumerevoli persone che hanno attraversato le coste africane. Il film di Irene Dioniso, al termine del Festival, ha ricevuto il premio del pubblico, forse proprio per la semplicità con cui la storia di queste due figure e la comunicazione epistolare che riescono ad instaurare, riesce a riassumere una testimonianza concreta dei continui flussi migratori fra le coste che si intrecciano con interessi complessi e controversi.
Tra i molti documentari italiani proiettati nel corso del Festival, sia nella sezione Panorama che nel programma dei film in concorso, in particolare tra questi ultimi spicca sicuramente L'infinita fabbrica del Duomo, diretto da Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, che si propone come una profonda riflessione tra la memoria artistica e storica e la relativa gestione umana a distanza di secoli. Con un ritmo lento, che permette una profonda attenzione ai dettagli formali, il documentario racconta la storia della costruzione del Duomo di Milano attraverso un viaggio tra il presente, rappresentato da una giornata di numerose attività legate alla sua gestione e conservazione, e il passato, ricostruito tramite la lettura filologica di antichi registri e documenti e le inquadrature di fotografie più recenti. Se queste ultime rappresentano una silenziosa testimonianza della storia di un edificio, sul piano storico le sue radici si trovano alla fine del Trecento, nel primo progetto di una nuova cattedrale che sostituisse quella di Santa Maria Maggiore ad opera dell'arcivescovo Antonio da Salluzzo; mentre sul piano materiale in quell'olmo più antico d'Italia dal quale venne estratto il materiale per la sua costruzione. E, non a caso, è proprio sull'immagine molto evocativa di questo albero che si apre il lungometraggio, mentre le didascalie vengono usate con frequenza per offrire allo spettatore notizie, aneddoti e dettagli relativi alle diverse fasi edificatorie, a cui viene data sostanza visiva grazie alle inquadrature delle cave di marmo nelle varie epoche storiche e del paesaggio naturale che, più in generale, ha fornito la materia prima per la sua costruzione di questa immensa cattedrale. Un'impresa che ha attraversato il passare dei secoli e che è stata resa possibile grazie ad una capillare rete di raccolta fondi, promossa anche da chiese più piccole e cappelle, riscuotendo ampio favore a tutti i livelli sociali, interessati ad un'opera che potesse, con la sua estensione verticale, avvicinarli ai cieli più alti.
La macchina da presa segue, dunque, i diversi processi della manutenzione dei singoli elementi che compongono tale imponente edificio, con particolare attenzione al restauro delle statue in pietra e in marmo, spostate continuamente dai magazzini sotterranei e da altri all'aperto ai laboratori immersi in un'atmosfera lattiginosa e tra le quali spicca la Madonnina, completamente ricoperta di fogli d'oro e posta sulla cima solo nel Settecento: con movimenti lenti e delicati, abili tecnici si occupano di restaurarla con minuzia, scomponendo la testa dal busto per dedicarle un'unica fase di lavorazione, seguendo il modello delle fotografie dei precedenti.
Dai piani bassi dei laboratori, il cui continuo lavoro è nascosto al grande pubblico, la cinepresa si sposta agli spazi aperti ai fedeli, quindi alle maestose navate della cattedrale, di cui vengono proposte inquadrature particolari, tra le baluginanti luci dei lumini votivi e i riflessi delle illuminazioni esterne sulle vetrate colorate, in cui sono illustrati alcuni passi dell'Antico Testamento. Finché, passata la notte, il lavoro meccanico e umano di gestione e di conservazione riprende la mattina successiva, con la prima fase di ogni giornata, in un movimento circolare continuo che va avanti da secoli grazie al lavoro di uomini che, come sottolinea la didascalia, spesso non hanno potuto vedere completate le loro fatiche, mediante le quali è possibile vedere «scolpito in questo grandioso movimento […] la storia di generazioni».
In una prospettiva evocativa e venata di riflessioni filosofiche sul rapporto tra l'eterna memoria artistica e l'effimera dimensione umana, i registi D'Anolfi e Parenti lasciano che, attraverso inquadrature lunghe, siano le immagini a parlare, ciascuna importante nel flusso ciclico scandito dai suoni e i rumori del lavoro delle macchine e quello dell'uomo, cooperanti insieme per questa immensa fabbrica, in attività da secoli così come molte altre la cui storia aspetta ancora di essere raccontata. Un finale aperto, quindi, che conferma il progetto di dedicare ulteriori documentari – per la quadrilogia Spira Mirabilis – ad altre bellezze artistiche italiane, suggerendo, grazie all'andamento visivo lento e riflessivo, al nostro sguardo di soffermarsi su di esse con la capacità di meravigliarsi ogni volta.