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Grand Tour di Miguel Gomes. Un viaggio attraverso il tempo, lo spazio e l’anima
Vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes, Grand Tour segna il ritorno di Miguel Gomes con un’opera che spazia tra diversi generi e registri, confermando la sua fama di autore visionario. Il film intreccia una storia d’amore e fuga, ambientata nel 1918, con un viaggio cinematografico che abbraccia l’Asia contemporanea e l’immaginario storico, offrendo agli spettatori un’esperienza unica.
La vicenda ruota intorno a Edward Abbott, un funzionario britannico coloniale, uomo che maschera la sua viltà con i privilegi del suo status sociale. Un giorno, in preda al panico, abbandona la fidanzata Molly il giorno del loro matrimonio. Tuttavia, Molly, volitiva e determinata, decide di inseguirlo attraverso le varie contrade dell’Asia orientale, trasformando la narrazione in un gioco di inseguimenti, fraintendimenti e incontri mancati. La dinamica tra i due personaggi, ribaltando i ruoli tradizionali del corteggiamento, richiama la brillantezza delle screwball comedies degli anni ’30 e ’40, arricchendosi di una dimensione emotiva più profonda. Le screwball comedies erano commedie ad effetto, di solito incentrate sulla “guerra dei sessi”, con una dialettica tra due persone che prima sono in antagonismo (anche per la differenza di classe), ma poi finiscono per innamorarsi, non senza aver vissuto esperienze spesso bizzarre e paradossali, con scambi di persona e travestimenti. Spesso abbiamo a che fare con coppie sposate che si dividono e si ritrovano.
Ma in questo film la commedia si trasforma lentamente in un dramma, con tinte che, nel personaggio maschile, potrebbero richiamare alla lontana il Lord Jim di Joseph Conrad. Ma rispetto ai film e ai romanzi ispirati alle storie del grande scrittore polacco e anglofono, Grand Tour non rivela un’autentica intensità drammatica, perché si muove con agilità tra la commedia romantica e il melodramma, esplorando i sentimenti dei protagonisti attraverso un viaggio esperienziale che è soprattutto interiore. Edward e Molly non percorrono solo terre lontane, ma affrontano anche le lande sconosciute delle proprie paure, desideri e contraddizioni. Questa duplicità si riflette nella struttura narrativa, dove l’ironia delle interazioni iniziali lascia spazio a un’indagine più complessa dei legami umani.
Gomes costruisce Grand Tour come un mosaico, alternando sequenze girate in esterni durante un vero viaggio in Asia con scene ricostruite nei teatri di posa di Lisbona e Roma. Questa dualità amplifica il fascino del film, trasportando lo spettatore in un’Asia immaginaria che si sovrappone alla geografia reale. Le immagini contemporanee, con la loro vivacità documentaristica, dialogano con un passato ricostruito con cura estetica, creando un ponte tra due mondi apparentemente separati.Gomes descrive Grand Tour come un film che celebra il cinema stesso: un’arte capace di unire epoche, luoghi e linguaggi. In questa opera, la fuga di Edward e l’inseguimento di Molly diventano una metafora del potere del cinema di colmare distanze e trasformare la realtà in immaginazione. Il film alterna tre filoni narrativi principali: il viaggio di Edward Abbott; le riprese documentaristiche realizzate dallo stesso Gomes nel 2020, in piena pandemia, con una macchina da presa in 16 millimetri; e una riflessione meta-narrativa che gioca con inserti da teatro delle marionette e intermezzi stilizzati.
Grand Tour non è solo un film, ma un’esperienza sensoriale e intellettuale che invita gli spettatori a riflettere sulle connessioni tra spazio, tempo e sentimento. Con la sua regia innovativa e il racconto stratificato, Miguel Gomes offre un’opera che è al tempo stesso un omaggio al viaggio e al potere trasformativo del cinema. Tuttavia, il film non riesce a essere spettacolare nel senso tradizionale del termine, scegliendo invece di concentrarsi su un’estetica intimista e riflessiva, che potrebbe non soddisfare chi cerca un intrattenimento visivo più moderno e seducente. L’approccio, volutamente contenuto, si concentra più sul significato che sullo spettacolo, con il rischio di lasciare una parte del pubblico insoddisfatta. L'elogio di Gomes alla settima arte si manifesta attraverso un ritmo lento e un’estetica rarefatta, più adatta a spettatori predisposti alla contemplazione che a chi cerca la meraviglia visiva di un grande spettacolo.
Le immagini, girate tra Myanmar, Giappone, Cina e altre mete, sono un tributo alla materialità del cinema, rese ancor più potenti dall’uso del bianco e nero. La fotografia richiama un’estetica hollywoodiana anni Quaranta, ma dialoga con la frammentazione e il dinamismo del reportage moderno. Queste procedure non solo mettono in discussione la linearità temporale, ma trasformano il film in una vera macchina del tempo, dove presente e passato si fondono per interrogare la nostra percezione della storia.
Edward e Molly, interpretati rispettivamente, e con grande efficacia, da Gonçalo Waddington e Crista Alfaiate, incarnano due archetipi: da un lato, la vigliaccheria maschile, dall’altro, l’autodeterminazione femminile, ma con un tentativo di andare oltre la rappresentazione di genere per mettere in luce le contraddizioni del colonialismo e le sue ombre persistenti.