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Adieu au langage di Godard. Realtà, immagini alterate e smarrimento
Godard torna al cinema e lo fa con un film, “Adieu au langage" (Addio al linguaggio), che si configura subito come una nuova sfida allo spettatore già a partire dallo stesso formato di visione, in quanto il 3D è sostanzialmente assente se non in alcune sequenze, collocandosi per questo a metà tra finzione e realtà, tra una traccia narrativa iniziale e una struttura che la sconfessa.
Anche chi conosce gli esordi di Godard, in particolare “Fino all'ultimo respiro”, non può che rimanere stupito dalla visione del suo ultimo lavoro, che spinge ancora oltre la sua tendenza alla sovversione della narrazione: la storia delineata all'inizio del film è continuamente franta da interruzioni e digressioni più o meno significative, ma anche da didascalie, che intervengono all'inizio e nel corso della pellicola. La vicenda centrale, molto semplice, infatti, viene raccontata due volte e, in entrambi i casi, suddivisa in “la nature” e “la metaphore”, quasi fossero “capitoli” interpretabili come le duplici prospettive con cui è possibile rapportarsi agli altri e, quindi, comunicare.
Nella difficoltà di individuare una vera e propria trama, la disamina della pellicola può cominciare proprio dai primi minuti del film, durante i quali vengono poste le basi della vicenda: inizialmente la macchina da presa inquadra un gruppo di giovani che sfoglia alcuni libri all'aperto, finché si concentra su una donna, che condivide lo stesso spazio in cui si muovono quelle figure, aventi solo un ruolo di comparsa, proprio come può accadere quotidianamente di incrociare persone per pochi istanti. Della ragazza non vengono fornite informazioni, se non che dimostra di essere disinteressata alle richieste di un uomo – con cui forse aveva avuto una realazione, probabilmente il suo compagno – finché non ne incontra un altro e la relazione tra i due si sviluppa sia sul piano riflessivo che su quello concreto. La vicenda indugia sulle loro conversazioni, che hanno per argomento la vita, la politica, la cultura, ma è evidente la difficoltà della comunicazione interpersonale e tra i due si verifica una rottura, colmata in qualche modo dall'arrivo casuale di un cane, che decidono di tenere con sé.
Su questo animale fedele e attento si era soffermata precedentemente la cinepresa di Godard, tanto da dedicargli una lunga sequenza in cui viene mostrato nei pressi di un fiume intento ad interagire con l'ambiente naturale che lo circonda. È proprio in questa parte del film che la voce del regista commenta la capacità naturale e quasi ancestrale che ha il cane – e più in generale il mondo animale – di rapportarsi al mondo esterno, instaurando una comunicazione non verbale che appare molto più profonda e sensibile rispetto alle parole che si scambia la coppia con un tono di voce quasi indifferente, fino a dare sostanza ad un senso di vuoto e di mancanza.
Il 3D risulta percebile dallo spettatore solo per l'effetto di una più evidente profondità nei rapporti tra i piani dell'inquadratura, mentre appare con più forza proprio nelle sequenze dedicate al cane, nelle quali la scelta di modificare i colori del paesaggio in cui è immerso, resi molto accesi e saturi, porta ad un allontanamento dal realismo. Anzi, spingendo più avanti questa considerazione, si tratta di una tecnica che implicitamente mette in evidenza quanto il cinema, soprattutto attraverso i suoi nuovi strumenti digitali, possa modificare le immagini e la percezione che si può avere di esse, tanto da renderle, talvolta, particolarmente disturbanti per la forte alterazione del reale e delle coordinate che – in un paradigma fantastico o realistico – sappiamo di poter ritrovare quando vediamo un film.
Ecco che, a discapito di una possibile narrazione lineare, da sempre rigettata da Godard, la parte di maggior rilievo, anche sul piano della poetica del regista, è proprio la sequenza del cane che vaga tra terra e acqua, dove non a caso il cineasta francese sceglie di appuntare, come fossero note a piè pagina, le proprie considerazioni sul linguaggio, non soffermandosi solo su quello umano.
Jean-Luc Godard, se già con “À bout de souffle” si era fatto interprete di quella stessa Nouvelle Vague, di cui fu espressione anche Trouffaut anche se con una prospettiva diversa, torna a far polemica, con quest'ultima pellicola, sul cinema odierno e, più in generale, sul linguaggio. “Adieu au langage” presenta una trama semplice, sostanzialmente statica, dove i dialoghi dei personaggi sono spesso citazioni di opere letterarie – ricordate nei titoli di coda – ma che si perde e si sfilaccia, dando spazio a digressioni, che risultano più significative, nella loro natura di frammento, di scorcio di reale.
In definitiva, con la sua ultima produzione Godard torna ad instaurare un dialogo critico con il mondo contemporaneo, focalizzandosi sul suo inaridimento comunicativo, ma anche con il cinema odierno e più in generale con la natura delle immagini che raccontano la realtà. Quest'ultima, sembra dirci il regista, non è mai realmente riproducibile, solo imitabile e alterabile – come nel caso di due inquadrature sovraimposte che con il 3D risultano illeggibili – ma sempre in modo problematico, anche quando le immagini appaiono più rassicuranti perché familiari: tutto è filtrato dal punto di vista di chi osserva.
Nonostante si tratti di un tema molto interessante, l'effetto generale di questo film è in direzione di uno smarrimento. La pellicola, se da un lato si propone come decisa riconferma della prospettiva critica con cui il cineasta si è sempre contraddistinto, dall'altro dimostra un'evidente predilezione per un linguaggio filmico ora troppo spietatamente concreto ora troppo criptico, che finisce per rimanere chiuso in un orizzonte di riflessioni la cui porta di accesso è chiusa. Allo spettatore, al quale Godard sceglie di non fornire quegli strumenti utili a capire il quadro d'insieme, viene chiesto di osservare, interpretare e scegliere una prospettiva da cui guardare questa vicenda, dallo schema molto semplice ma dalla struttura estremamente complicata e poblematica.