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Ane Brun. L'impero delle luci soffuse
Piccole fiaccole sul palco, per ora spente ma che poi si accenderanno in una scia di riflessi quasi à L'impero delle luci di Magritte (L'empire des lumières, 1953-54, Peggy Guggenheim Collection, Venezia): è così che si presenta la norvegese bionda Ane Brun col suo gruppo di supporto, Tonbruket, che è poi la sua band. Il 24 novembre ha inondato della sua voce calda un Teatro Studio al Parco della Musica con un pubblico che batteva a tempo le mani e cantava – sospirando – i brani di una cantautrice nordica che soffia calore in ogni suo verso, e luce fin dall'inizio.
Ascoltare Ane Brun è un viaggio nelle luci soffuse: ed anche coloro che la precedono, gli svedesi Tonbruket, col loro mix arguto e stilisticamente originale, la fanno brillare in un incrocio tra sonorità free jazz senza l'uso di fiati, su un terreno pyschoprog dei tempi coevi.
Le luci calano solo per inondare il palco di calore: quelle fiaccole elettriche che sono appese agli strumenti ed al microfono di Ane Brun sono un'unica luce, quella con cui incomincia: The Light from One:
I'll need both my hands to hold my own
I need only one light
The light from one
Il début di Ane Brun è magicamente circonfuso di luce, quella stessa che lei accenderà solo per sé, senza fardelli di nessuna specie: il messaggio è chiaro e risoluto, e trovo che i suoi testi, perfettamente comprensibili in inglese, ring a bell, fanno risuonare una campana dall'interno. Come il seguente The Puzzle che lei, (come dice il testo), riuscirà a risolvere in 365 giorni, nonostante il terreno minato per ricomporlo.
The Treehouse song è sul versante folk, con qualche occhiolino alla Lily Allen di It's not fair, che continua con Changing of the Seasons, proseguendo su un percorso acustico, una virata cantautoriale che fa sostenere sempre di più la profonda romanticità dei popoli nordici, così civili nell'esporre la loro tristezza infinitamente umana che rimanda alla Melancolia nata con l'amore negativo del romanzo cortese di Tristano e Isotta. La Lullaby For Grown-Ups si dipana su un terreno flesso e leggero come anche To Let Myself Go, che però si dinamizza con il refrain ritmico dei versi del titolo. Un jazz velato da suoni di ballate antiche, come gocce di brina cadute su fuochi repentini accesi nel bosco, la sua lullaby continua a farci risuonare in testa un amore passato, antichizzato nel ricordo ideale di un momento, quello di Oh Love.
This Voice è una pausa ritmata fra le due ballate, ed il prosieguo con Humming one of your songs (da Spending time with Morgan, il suo primo album del 2003; Morgan è il soprannome di una delle sue chitarre) è il perfetto concatenarsi di una serie, insieme a Worship, che fa brillare intensamente e drammaticamente con la title track One (il link conduce al cortometraggio ufficiale, più lungo della cazone) dell'album del 2011 “It all starts with one”.
Stones from dust
Anger from fear
Poetry from heartbeats
Revolution from dreams
Do you remember chiude il primo tempo di un set che si inebria vivace su queste ultime note prima di far tornare tutti di nuovo sul palco, sempre in camicia bianca mentre lei è tutta oro che luccica, sinuosamente avvolta in una mantella bronzata che agita a ritmo rilucendo sullo sfondo a ragnatela.
La prima è acustica: lei da sola con Big in Japan (la cover degli Alphaville), un back to '80 da lei che è nata nel '76 e deve averli ben conosciuti. Ha scelto una delle canzoni più emozionanti di quel periodo così sincero nel suo dipanarsi musicale con excursus nella new wave come appunto fecero gli Alphaville, autori originali della canzone:
Winter's cityside
Crystal bits of snowflakes
All around my head and in the wind
I had no illusions
That I'd ever find a glimpse
Of summer's heatwaves in your eyes
These Days fa rientrare la band riconfermando quel ritmo che connota molte delle canzoni della cantautrice norvegese che ha riscosso successo anche in tournée con Peter Gabriel ed Ani Di Franco,e che ora festeggia il suo primo decennio sul palco con la pubblicazione di due collections: Rarities e Songs 2003-2013. Don't Leave chiude come un ultimo richiamo a quella ricerca interiore che riempie di lucciole il palco, come a a far risplendere qualcosa che è stato a lungo nutrito nel cuore e si addormenta solo accendendo un'altra alba.