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Anteprima. Ci sono stati dei disordini. Il G8 secondo Luigi MIlani
Torna, a distanza di qualche anno, la nuova edizione, interamente rivista rispetto alla precedente versione cartacea, di Ci sono stati dei disordini, la versione esclusivamente in digitale del romanzo breve di Luigi Milani. Oltre a una nuova copertina realizzata ad hoc dal visual designer Gabriele Ciufo e la prefazione di Antonella Beccaria, giornalista de Il Fatto Quotidiano, il romanzo ospita anche un'introduzione dell’autore. Una speciale anteprima per i nostri lettori.
Genova, venerdì 20 luglio 2001
Le vampe arancioni del tramonto incombente lambiscono ormai il cielo di Genova, quando Silvia riesce finalmente a varcare uno dei pochi caselli rimasti aperti.
Tutte le strade sono invase da mezzi della Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, persino della Guardia Forestale. Scarse le auto private in circolazione. Molti genovesi, terrorizzati per le notizie diffuse a getto continuo dai media, hanno abbandonato la città. Negozi, bar e ristoranti sono chiusi. Porte e finestre sbarrate ovunque.
Volti tesi si affacciano dalle finestre dei piani più alti. Contemplano inorriditi il caos. Non passa notte che non vengano innalzate nuove barricate di container, nel tentativo di sbarrare la strada ai manifestanti, che continuano ad affluire da giorni.
Genova è sotto assedio, ma il blocco sembra messo in atto soprattutto dalle Forze dell’Ordine. In città circolano più militari che civili. I genovesi rimasti si sentono in pericolo, ostaggi di una battaglia ideologica prima ancora che fisica.
Lo scontro viene da lontano, da Seattle. È stato lì, nella cittadina che ha visto nascere il Grunge di Kurt Cobain, che nel 1999 “il popolo di Seattle” ha scatenato la prima aspra contestazione contro i rischi di una globalizzazione dissennata.
L’incontro precedente degli Otto si è tenuto in Giappone, ad Okinawa. Non senza ragione, le autorità giapponesi hanno organizzato l’incontro in un luogo pressoché irraggiungibile per gli appartenenti al movimento, in costante crescita, di chi si oppone alla gestione verticistica di questioni di rilevanza globale. Ma i giapponesi hanno blindato quell’incontro sul serio, non come si è fatto, e anzi si continua a tentare di fare, qui a Genova.
Silvia ha visto con i suoi occhi barriere di cemento e acciaio innalzate in maniera posticcia, a tutela di… A tutela di chi, di cosa, si chiede, mentre cerca di aggirare la selva di divieti e deviazioni, che, nelle intenzioni delle Autorità, dovrebbero mantenere alsicuro la cosiddetta Zona Rossa della città.
Le strade percorse solo pochi anni prima con Luca, quando lo accompagnò per un servizio sul celebre Acquario, le appaiono irriconoscibili: posti di blocco ovunque, centinaia di poliziotti in assetto da sommossa sparpagliati nei punti nevralgici, perfino lungo i carruggi. Il centro è blindato, impenetrabile come le viscere di una montagna. Una cosa è sicura: non sarà facile superare gli sbarramenti.
Con il contrassegno da medico ben in mostra sul parabrezza, tenta di avvicinarsi il più possibile alla zona off-limits, finché, all’ennesimo diverbio con i vigili, è costretta ad abbandonare la macchina per proseguire a piedi.
Conosce Luca. Sa bene che con ogni probabilità si sarà diretto verso i punti più caldi di Genova. Una città che, per colmo di paradosso, appare anche abbellita – ma l’aggettivo che le viene in mente è un altro: “imbellettata” – a beneficio dell’immagine che il capoluogo ligure vorrebbe trasmettere di sé al resto del mondo. C’è chi dice che solo questo lifting sia costato settecento miliardi. La cifra esatta non la conosce nessuno, e c’è da giurare che non sarà mai divulgata.
Silvia ansima, le manca l’aria, mentre parcheggia l’auto in una strada che non riesce a riconoscere, nonostante sia sicura di averla già percorsa in precedenza. Sul muro di un palazzo un manifesto, gli orli sollevati e bruciacchiati, recita:
CANCELLA IL DEBITO
Sono passanti pazzi di rabbia per la situazione infernale in cui è precipitata la loro città, quelli che le sfrecciano accanto ad occhi bassi. Non sembrano apprezzare le motivazioni dei manifestanti, né potrebbe essere diversamente. L’espressione “No Global”, per la maggior parte di questa gente terrorizzata e indispettita, è sinonimo di teppismo e violenza. Ai loro occhi, tutti i volti – e ce ne sono di molti colori, fedi e orientamenti politici – assumono le inquietanti sembianze dei Black-Bloc, delle tute nere.
Da un varco improvvisato, mescolata alla folla di manifestanti e poliziotti, un fazzoletto sulla bocca per proteggersi dal gas dei lacrimogeni, Silvia riesce a insinuarsi nella zona degli scontri.
Procede a passo veloce, zig-zagando tra cumuli di detriti, striscioni abbandonati e tappeti di schegge di vetro scintillanti ai raggi del tramonto. Un paio di volte incrocia manipoli di dimostranti in ritirata. In ritirata, sì: non c’è altro termine per descrivere la corsa a perdifiato di questi ragazzi dallo sguardo spaurito, gli abiti, gli zaini e i sacchi a pelo arrotolati sulle spalle chiazzati di polvere e sangue.
«Cos’è successo? Chi vi ha ridotto così?» chiede Silvia a unodei giovani, mentre le passa accanto.
«Ci hanno caricati per disperderci, ecco cos’è successo!» risponde il ragazzo, asciugandosi con la manica della camicia il sangue che sgorga dal sopracciglio. Subito dopo corre via a raggiungere i suoi compagni.
È un misto di paura e indignazione a scuotere Silvia, per quanto vede e sente. Eppure questo è suolo italiano. Il suo amato paese, la culla del diritto!
A pochi metri da lei, intravvede la saracinesca di un bar semi abbassata. Senza pensarci su due volte entra, curvando la schiena.
All’interno, mentre cerca di adattare lo sguardo alla luce ridotta del locale, si sente afferrare per il bavero. Un’ombra ringhiante la spinge verso il bancone, con forza bestiale. Silvia urla e si dimena 64 come una pazza, finché la sagoma scura si stacca da lei per raggiungere il vecchio telefono a muro. Brandendo la cornetta come un’arma, tuona: «Se ne vada, signorina, o chiamo la polizia!»
«Stia calmo! Sto solo cercando mio marito!» urla di rimando Silvia all’uomo, che ora mostra il suo volto, di vecchio spaventato.
«E lo viene a cercare qui, suo marito? Chi è, uno di quei bastardi che stanno mettendo a ferro e fuoco la città?»
«Ma no, no, cosa dice! È qui per lavoro! È un fotografo! Non lo sento da ieri, e sono così in ansia per lui!» spiega, in una voce che non sembra la sua.
L’uomo, stando ben attento a non voltarle le spalle, riappende il ricevitore. Poi, come a sincerarsi delle sue parole, la guarda dritto negli occhi, apertamente, come fanno gli animali quando cercano lo sguardo degli uomini, e ti danno l’inequivocabilesensazione che riescano a leggerti dentro.
Ma anche Silvia ha visto gli occhi dell’uomo ritto di fronte a lei, e lo sguardo che vi ha colto le ha detto più di tante parole.
«Prenda questo» dice il vecchio, con voce ferma. Le allunga un bicchiere da dietro al bancone e vi versa acqua con gesto rapido, senza spargerne una goccia.
A Silvia sembra di assistere alla scena di uno strano film di cui lei è l’involontaria protagonista. È solo quando sente biascicare qualcosa in dialetto, a voce troppo bassa perché possa anche solo intuire il significato delle parole, che prova di nuovo paura. Il solito, irrazionale, inevitabile timore di ciò che non capisci.
Il vecchio tracanna una ricca sorsata dalla bottiglia di minerale,poi la posa vicino al bicchiere della donna.
«Beva, su…», la esorta, accennando un sorriso. «Sono giorni brutti, questi. Abbiamo perso tutti la testa», soggiunge subito dopo, trafficando alla macchina dell’espresso. «Non avevo visto mai una cosa del genere, mi creda, signora. Ho pensato che fosse una di loro, capisce?»
«Ma sì, ma sì! Certo che capisco!» sbotta Silvia, la voce arrochita dal fumo e dalla concitazione.