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Anteprima Mezzotints Book. Lo Stonehenge secondo Arona e Rosati
Sesto titolo in quattro mesi per Mezzotints Ebook: il prossimo 20 maggio sarà disponibile infatti per la collana Buio Protocollo Stonehenge, romanzo inedito della coppia Danilo Arona & Edoardo Rosati, con prefazione di Alan D. Altieri. La copertina è realizzata dall'illustratore inglese Ben Baldwin. In anteprima per Gothic Network il primo capitolo.
Italia. Padova. Una maledizione invisibile sta collezionando una sfilza di vittime. Giovani donne che muoiono nel sonno con le ossa fratturate in maniera sempre identica. Ma nessuno s’è accorto di questa catena di decessi. Nessuno collega le morti, che sembrano verificarsi una volta all’anno: tutte di 29 dicembre, alle 5,30 circa. Nessuno, tranne un giovane universitario di Padova, laureando in Medicina, che ha visto morire proprio in quell’assurdo modo la sorella. Il filo rosso che connette le diverse morti potrebbe chiamarsi Sindrome di Melissa, una realtà clinica misconosciuta, descritta per la prima volta da un medico italiano in pensione.
CAPITOLO 1
23 marzo 2011
Ore 21.10
La7
«È pronto, professore?»
L’uomo in giacca grigia, camicia bianca e cravatta lilla, annuì. E socchiuse le palpebre.
«Bene! Allora, Aldo, anch’io sono pronta! Regia, direi che si può partire. Uno, due…»
Il fedelissimo Aldo, che governava la telecamera, sollevò il pollice in alto. E la mora telecronista attaccò il servizio, con uno degli incipit arrapanti che tanto titillavano il direttore. «Nel dicembre del 2010 le cronache locali di Padova riportano in un trafiletto il caso, incredibile e tragico, di P.M., una giovane di ventidue anni. Deceduta nel sonno. Da più di un mese, tutte le sante notti, la ragazza si ritrovava a urlare, implorando i genitori di “portarla via da lì”, perché sentiva che qualcosa la minacciava».
Mentre la giornalista raccontava, la regia spedì in onda una sequenza di immagini in dissolvenza incrociata: pitture surrealiste, il viso zeppo di cheloidi di Freddy Krueger con le sue unghie d’acciaio luccicanti, le policromatiche visioni di Edward Jessup pescate dal film Stati di allucinazione. In sottofondo le note lisergiche di Teardrop, dei Massive Attack.
Poi, un primo piano del fotogenico professore sessantaduenne, Ludovico Fornari Assante, impegnato ad ascoltare a occhi chiusi. Per soppesare meglio le frasi della reporter. O forse solo per stanchezza. Perché – lì nessuno lo sapeva – settantacinque minuti prima del collegamento tv, le sue mani avevano navigato tra i neuroni di un ragazzo ventunenne affetto da un tumore al cervello. Un astrocitoma. Un grumo di cellule impazzite grosso quanto un pisello, ma rognosamente capace di sgomitare tra le strutture nervose. Preda di improvvise raffiche di crisi epilettiche, simili a tsunami elettrici, il giovane s’era ritrovato disteso sul lettino della sala operatoria, in mezzo a un fluttuante altare di teli azzurri. Sulla sua testa il professor Ludovico Fornari Assante aveva inciso un foro: una tonda assenza di osso cranico, a sinistra, tra la tempia e la fronte, poco più grande d’un vetrino di orologio. E con la perizia di un monaco certosino (e un trapano per craniotomia), lo aveva aperto, lavorando, con i ferri, sulle circonvoluzioni cerebrali.
Era noto come amasse azzardare. Scandagliare le mille strade della terapia, provocando spesso nasi arricciati (e cocenti punte d’invidia) tra i baroni della medicina, prigionieri delle convenzionalità dell’arte di Esculapio. Così, sulla materia grigia di quel ragazzo, Ludovico Fornari Assante non si era limitato a lavorare di bisturi. A metà operazione, ne aveva interrotto il sonno indotto dalle macchine e dai fluidi dell’anestesiologia, riportandolo alla coscienza e invitandolo a contare. «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…» Scena surreale: il professore seduto su un trespolo, munito di occhiali operatori d’ingrandimento, che armeggiava all’interno del cranio del paziente. E il paziente, imbambolato ma cosciente, a recitare a voce alta. «… sette, otto, nove, dieci, undici…» Con un buco nel cranio. E il cervello esposto al mondo senza provare dolore: un miracolo perfettamente progettato a tavolino.
Non che in reparto non ci fossero abituati. Il professore spiccava tra i padri mondiali della awake surgery, ultima, impressionante frontiera della neurochirurgia. Una branca che consentiva d’intervenire su pazienti “svegli e collaboranti”. Si applicava per lesioni particolari, come i tumori bastardi che proliferano nelle aree critiche del cervello: quelle che permettono il movimento, il linguaggio parlato, la lettura, la scrittura, la comprensione della parola udita. Ma l’asportazione chirurgica del problema non doveva lasciare nel paziente tragiche conseguenze: la perdita della parola o l’uso di un arto. A lungo si era chiesto come raggiungere la certezza che il bisturi, rimuovendo i tessuti malati, non rischiasse di tranciare anche qualche prezioso cavo nervoso. E un giorno aveva partorito l’idea pazzesca: sarebbe stato lo stesso paziente a suggerirglielo.
Così, il ragazzo era stato prima spedito nel molle regno dell’anestesia generale, e poi, a craniotomia conclusa, bellamente risvegliato con la sospensione del flusso dei miscugli anestetici e analgesici. «… dodici, tredici, quattordici, quindici…»
Sul suo cervello, praticamente sveglio, le mani di un collaboratore del professore avevano appoggiato una sorta di bacchetta da rabdomante: uno stimolatore corticale, per emettere impulsi nei territori nervosi dove si stava svolgendo l’intervento. Lo scandagliava. Come i sonar delle navi che perlustrano le profondità marine. Sparando bordate elettriche per esplorare il terreno. «… sedici, diciassette, diciotto, di… di… di… diciannnooovveee…vvveeen… vvveeennn… vvveeen…» All’improvviso la voce del ragazzo si era incrinata, incagliandosi in quel “venti”. Una radio rotta, un cd che girava a vuoto. L’assistente aveva così lanciato l’allarme: «Professore, adesso il paziente è confuso. Si è bloccato». Lo stimolatore aveva centrato un punto critico, un’area cruciale che il bisturi doveva assolutamente evitare nel suo microscopico percorso verso il tumore. In altri anni, un chirurgo si sarebbe inoltrato alla cieca in un ginepraio di interruttori e fili nervosi. Pestando mine e rischiando di seminare ferite neurologiche ingenti. Ma la awake surgery di Fornari Assante riusciva a fiutare in anticipo dove s’annidava il pericolo. E lo aggirava egregiamente, marcando il territorio nervoso che governava il linguaggio. Capendo che da lì non si transitava. Non si doveva transitare. Stop, divieto d’accesso. Il sonar elettrico aveva così perlustrato un’altra area della corteccia cerebrale. E nello stesso istante l’incantesimo che paralizzava le labbra del ragazzo si era dissolto. E la bocca riacquistato la scioltezza: «Venti, ventuno, ventidue, ventitre…»
Stimolazione dopo stimolazione, come se spargesse le molliche di Pollicino, il professor Ludovico Fornari Assante tracciava la strada per raggiungere la minuta massa tumorale. Ed eccola lì, la bestia: una folle manciata di cellule che ti mette a soqquadro la vita. L’aveva spazzata via con progressive e millimetriche verticalizzazioni di bisturi. Col paziente che, occhi aperti sotto i teli chirurgici, aveva persino cominciato a chiacchierare con l’infermiera. Tanto che lui, con tono falsamente severo e il sorriso nel cuore, si era permesso un rimprovero tra le risatine generali: «Scusate, ma potreste farlo stare un po’ zitto? Si muove tutto, qui!»
L’Uomo Nero era stato scacciato: nel giro di 4-5 ore.
Se la telecamera che attendeva Fornari Assante per la diretta televisiva si fosse accesa qualche minuto prima, all’uscita del professore dalla sala operatoria, avrebbe ripreso fuori onda una donna e un uomo tra i singhiozzi del pianto: i genitori del ragazzo senza più la Cosa nella testa, che non avevano esitato a prendere le mani farinose di talco del chirurgo, appena liberate dai guanti, e a baciarle. Scene di straordinaria amministrazione e guarigione, nel reparto ospedaliero che Ludovico Fornari Assante governava come un Viceré.
Lo zoomata virò all’indietro, inquadrando il professore – un tipo dall’aspetto bonario e le guance appena cadenti, una pappagorgia incollata a un corpo di poco sovrappeso e la pelata abbracciata da un cerchio composto di corti capelli sale e pepe – e la giornalista, che calcava il tono misterico della lettura.