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Aspettando Godot a Torino. Il monotono monodiare di Dio
Al Teatro Carignano di Torino fino al 15 maggio 2011 c'è stato Aspettando Godot con Ugo Pagliai e Eros Pagni per la regia di Marco Sciaccaluga. Lo sfuggivo, Aspettando Godot. Anzi, per il vero, avevo forzato me stesso a fuggire da Beckett tout court, da parecchio tempo. Con la sola eccezione di quell’immaginifico e inimmaginabile Finale di partita che Franco Branciaroli ha portato in giro per l’Italia pochi anni addietro. Ma, trattandosi di Branciaroli, si e’ trattato, verosimilmente, di un’altra storia.
Perchè amare il teatro e del novecento ed evitare Beckett? In fondo e’ facile, la risposta. Perche’ ci ha segnato così tanto nel momento della nostra formazione, e pure cosi’ profondamente, e perchè si e’ amato così tanto nel corso degli anni proprio il teatro di Beckett che non è impuro il timore di trovarlo immutato e inadeguato, tanto ai nostri tempi moderni a quanto siamo diventati, anche (e forse soprattutto) grazie a lui.
Poi capitano le serate strane e impossibili. Inaspettate. Miracolose.
Accade che Torino sia invasa dagli alpini per l’annuale adunata e pure colla caciarante e contemporanea carovana del Giro d’Italia, e il pigia pigia umano assuma livelli inusitati e quasi insopportabili e cosi’ pure il vociare della folla migrante per vie intasate d’umanità.
Accade che in questa sera di maggio, nel fendere faticosamente le vie del centro per riguadagnare la porta di casa e lasciar fuori il resto del mondo si passi, per caso (?) davanti al Teatro Carignano, dove Godot aspetta, e non si resista piu’.
E si entra.
E come nelle favole (quelle belle, che non smetteremo mai di raccontarci e per questo il più delle volte nemmeno principiamo a farlo) non solo c’e’ un biglietto disponibile, ma, udite udite, capita di avere addirittura tutto il palco centrale a propria completa ed esclusiva disposizione.
Didi e Gago sono rimasti quelli di sempre, impregnati di una freschezza dialettica che si temeva stemperata dal tempo, ma che nella programmatica assurdità del dialogo non ha perso alcunchè in inventiva; e i dialoghi stentati del loro assurdo peregrinare in un’attesa inconsapevole di non sa chi o cosa, pur se spesso ricordati battuta dopo battuta, nulla hanno perso della fascinazione originaria con cui li si è avvicinati la prima volta.
Se e’ cosi’ bello avere avuto la riprova che il testo, come i veri grandi e pochi classici, sostiene senza cedimenti le sferzate e i tentativi di usura che il tempo passato necessariamente gli impone, merito non ultimo, oltre che della già accennata perfetta casualità, non può che risiedere negli interpreti. Pagliai è bravo come sempre, mentre Eros Pagni, che era parso noioso e quasi fuori luogo la scorsa stagione nei panni di Re Lear, trova nelle vesti di Vladimiro il nido perfetto del suo attuale monotono monodiare, cui dona accenti di sorpresa che piacevolmente impressionano anche chi non lo ha altre volte particolarmente apprezzato.
Inessienziale la regia di Marco Sciaccaluga, che è sembrata sottesa a dimostrare come anche nell’inazione determinata e decisa dall’attesa possano, ad un tempo, e come per assurdo (si perdoni il vacuo gioco di parole) coesistere azione e movimento.
Piacevoli anche se non superlativi gli altri interpreti (di tanto in tanto decisamente sopra le righe), ma ciò in fondo più di tanto poco conta, perchè, aspettando Godot, continuiamo a sperare che i sogni non divengano ricordi e ci mantengano, loro sì, nella realtà.