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Caino di Paola Capriolo. L'innocente candore della vittima
Il mistero, l’indefinito, l’invisibile sono le categorie che dominano le pagine di Caino, romanzo edito da Bompiani nel 2012, di Paola Capriolo, scrittrice particolarmente interessata ad indagare il mondo sotterraneo della psiche umana. Il titolo proietta, infatti, in una dimensione mistico-religiosa, rimandando alla storia del primo delitto dell’umanità, l’innocenza sacrificata all’arroganza. In questo caso il ruolo dei personaggi biblici è tutto giocato da Milagro, nome significativamente allusivo che riecheggia la parola miracolo, e da Max, consulente di marketing, il cui nome evoca già la potenza. Milagro è semplicemente la domestica, Max ne è “il padrone”, due mondi diversi, due ruoli ben definiti la cui coesistenza è messa in pericolo dall'incontro.
Presenze inconsistenti percepibili solo da Milagro concorrono ad immergerci in un’atmosfera visionaria e a tratti profondamente inquietante, contribuendo, tuttavia, anche a darci un’adeguata rappresentazione della donna: la sua purezza le consente di cogliere tutto ciò che è invisibile ai più, entrando in contatto con le forze misteriose che agitano l’esistenza umana, spingendosi al di là della realtà fenomenica. Diversa è, invece, la visione che si impone a Max: un ragno orribile, dalle zampe lunghe e sottili e dal tondo corpo nero che si muove ostinatamente sul monitor del suo computer e “che si ostinava a contaminare quel suo mondo perfetto”. Quest’immagine è il primo dei tanti segni, disseminati dall’autrice tra le pagine bianche, del turbamento del suo personaggio, in quanto una tale scena sembra richiamare in filigrana quella della Metamorfosi di Kafka. L’insetto nero, infatti, da un lato indica una macchia che inizia a propagarsi nella vita di Max, ma, dall’altro lato, allude al ritmo alienante della sua esistenza, scandita da rituali che si ripetono ormai sempre uguali a se stessi, immersa in eventi mondani che gli precludono di godere di rapporti autentici anche all’interno della sua famiglia. Profondamente distante appare l’uomo sia dalla moglie Giulia, tutta protesa al culto dell’immagine, che dal figlio, designato non con un nome proprio ma col termine Bambino, appunto per dare l’idea del prevalere dei ruoli sociali, sin dall’infanzia, sull’unicità della persona. Manca, pertanto, un legame autentico tanto che sia la paternità che la maternità possono essere vissuti come un risvolto sociale.
E la mancanza di riferimenti precisi ai luoghi in cui è ambientata la vicenda suggerisce che questo menage potrebbe appartenere ad ogni uomo del nostro tempo. Un tale sistema, tuttavia, è destinato a sgretolarsi, ad implodere dall’interno, tanto è effimera la trama su cui poggia. Proprio la labilità di questo contesto spinge Max ad avvicinarsi a quello incontaminato di Milagro, incuriosendosi per quella esistenza che scorre tranquilla, libera dalle insidie della frenesia, dalla trappola dei desideri che spesso spinge a volere sempre di più. Le certezze del sicuro consulente di marketing sono destinate ad infrangersi durante il confronto con la giovane domestica, dal suo pronunciare candidamente che non desidera nulla perché non le manca nulla. Da questa decisa affermazione si origina lo sconcerto di Max secondo cui “tutti desiderano qualcosa in più di quello che hanno”.
Nell’odierno contesto sociale si è forse portati a credere che l’insoddisfazione debba essere la legge universale comune a tutti, un principio quasi da sponsorizzare per aumentare addirittura la produttività economica. Il confronto, invece, con chi è al di là di tali convenzioni evidenzia la fallacia del mondo artificiosamente costruito, al di sotto del quale c’è il nulla. Milagro, con il suo candore, sgretola le certezze dell’uomo sicuro solo in apparenza, costringendolo a vedere se stesso e la realtà in modo nuovo. È come se per Max, personaggio quasi pirandelliano, l’agire fosse possibile solo ignorando il carattere convenzionale della realtà che lo circonda, prendendo per vere solo le proprie proiezioni soggettive.
Quando le convinzioni dell’uomo borghese vacillano, i rapporti tra i due personaggi si ribaltano: la giovane straniera, quasi analfabeta, sembra assumere un posizione di forza nei confronti del suo padrone, giungendo a soggiogarlo fortemente. Ecco, quindi, che lo smarrimento di Max si traduce in odio: “la odiava dell’odio amaro e intossicante che chi non ha nulla nutre per chi ha tutto, tanto più amaro se a scoprire la propria irrimediabile miseria è colui che possiede la terra, mentre l’eletto, il privilegiato, non è altro che un semplice pastore costretto a guadagnarsi la vita tra stenti di ogni genere”. Milagro diventa, pertanto, l’eletta, colei che è stata prescelta per penetrare il mistero dell’esistenza, mentre Max si trasforma in Caino, ovvero in colui che, una volta compreso di trovarsi in una posizione subordinata, non accetta chi è diverso da se stesso. Questa invidia profonda, tipica anche del personaggio biblico, per colei che partecipa al segreto della vita non può non tradursi nella cancellazione definitiva di Milagro/Abele.
Vano è il tentativo di stemperare nel silenzio l’urlo della vittima sacrificale, di ammantare d'inganno ciò che è accaduto; ormai lo strappo è avvenuto e l’uomo non può più fingere, non può che arrendersi, sprofondando definitivamente egli stesso nel baratro che gli si apre dinanzi, riducendo in frammenti tutto ciò che lo circonda.