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Cometa Off. L'uomo della sabbia o l'alchemica cavità oculare
Al Cometa Off di Roma uno spettacolo di Luca De Bei ha messo in scena L'uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, per la VIII° edizione di LET – Liberi Esperimenti Teatrali, dal 16 al 18 marzo 2012; sul palcoscenico Mauro Conte, Riccardo Francia, Fabio Maffei e Giselle Martino.
“Io non cerco di portare sullo schermo un cosiddetto “pezzo di vita”, perché la gente può trovare tutti i pezzi di vita che desidera sul marciapiede di fronte al cinema e non deve neanche pagare per vederli”. Con queste parole Alfred Hitchcock, ai limiti della provocazione, nella famosa intervista a François Truffaut (dalla quale scaturì il fortunatissimo libro “Il cinema di Hitchcock secondo Hitchcock”) canonizzò quella fascinazione verso la sfera irrazionale e il surreale la cui suggestione fece numerosi seguaci, molti dei quali illustri (oltre al già citato genio Inglese, Bunuel e Dalì).
E Luca De Bei, regista de L’uomo della sabbia, sembra conoscere bene la lezione. Tratto da un racconto inserito nella raccolta Notturni di E.T.A. Hoffmann del 1815 (che ebbe il merito di essere preso come paradigma proprio da Sigmund Freud nel saggio Il Perturbante), lo spettacolo ha fatto immergere i presenti in un universo surreale ed onirico tale da riuscire a promuovere quel dialogo (non sempre facilmente attuabile) con la nostra sfera più irrazionale.
Il Leitmotiv ricorrente dell’entrata in scena dell’Uomo della sabbia, accompagnato dal rimbombare di passi pesanti e dallo scricchiolio del legno delle scale, il buio, la nebbia, i bambini a cui vengono cavati gli occhi, sono immagini neanche troppo “fantastiche” ed irrazionali, in virtù delle quali viene disintegrata quella dialettica Uomo-Bambino che appartiene al mondo reale. In effetti il rievocare certi “fantasmi” e suggestioni ci riporta tutti nell’unica condizione possibile capace di coglierli, ovvero quella esclusivamente puerile, che lotta incessantemente per riemergere dalla sfera adulta. E il tornar bambini vuol dire certamente perdere i punti di riferimento e le coordinate spazio temporali a vantaggio del dipanarsi di situazioni mentali che ci introducono in un viaggio che si avvicina all’elemento irrazionale per eccellenza: la follia (la stessa che ha vinto Nathaniel, qui interpretato magistralemente da Mauro Conte). Hoffmann non poteva non rifarsi al sostrato culturale ancestrale di matrice Indoeuropea, quella stessa matrice che ha influenzato enormemente tutta la tragedia greca (e di fatto la nostra cultura occidentale) e che ha generato un’opera ampiamente stratificata come l’Edipo re.
L’accecamento di Edipo (che si attua in età adulta ma che in realtà, grazie al percorso retroattivo della gnosis, avviene in un ideale età puerile) ricorda i bambini senza occhi dell’autore tedesco. Anche per la scelta dei nomi Coppelius e Coppola, come è stato messo in evidenza da Freud stesso, Hoffmann, appassionato lettore delle fiabe di Gozzi, voleva suggerirci i termini italiani ‘coppella’ e ‘coppo’, indicanti rispettivamente un recipiente per esperimenti di alchimia e la cavità oculare. Ancora una volta, quella sana paura propria delle fiabe ha lasciato il segno e per un’ora circa ha fatto tornare bambini tutti i presenti che affollavano il piccolo teatro romano. Con la speranza, alla fine, di avere ancora i propri occhi.